È un tema poco trattato. Non sono fratelli di persone disabili. Sono fratelli e sorelle della disabilità. È molto diverso. Li chiamano siblings. Fratelli e sorelle di persone con disabilità. Li conosciamo per lo più già adulti. Li conosciamo forti, sorridenti, spesso dediti all’accudimento e alla cura dei fratelli o sorelle disabili. Viceversa non li incontreremmo e non sapremmo mai di quel dolore irrisolto e spesso non affrontato che li ha condotti lontanissimo dalle proprie origini e dalla famiglia.
Bambini che fin da piccolissimi sono già grandi perché devono camminare prestissimo per alleggerire il carico del passeggino e della sedia a rotelle. Bambini che sono sempre buoni, bravi e obbedienti perché imparano quella regola dei gesti: quando mamma chiama devo correre o quel fratellino o sorellina potrebbe stare male e forse anche per colpa mia. Bambini eccezionali in classe e disponibili con chiunque li chiami: corrono, questi bambini.
Sorridono per davvero all’inizio e poi imparano a farlo anche per finta per non nuocere a quella mamma e a quel papà già distrutti. Eppure nessuno li considera fragili. Sono i figli riusciti bene. Sono i figli fortunati. Sono i figli che abilitano al mondo pseudo-normo-genitori che altrimenti rimangono di serie Z.
Quando nacque la mia seconda figlia non mi resi conto del fragore che la sua salute scatenò nei paraggi della nostra vita. In fondo tanti avevamo pensato quella cosa ignorante ridicola e blasfema che Diletta fosse una colpa o di mamma o di papà. Perché sicuramente quando capita qualcosa del genere una colpa da scaricare su quei genitori ci sta tutta: serve ad allontanare la paura che potrebbe capitare a chiunque, anche a noi osservatori casuali, pareti, amici e conoscenti.
Tant’è. Le sfide mi piacciono da sempre e mi sono fatta una risata mentre mi godevo la mia seconda figlia così diversa dalla prima. Stessa diversità che riscontrai tra la seconda e la terza figlia. Fu lì che capii che un figlio è proprietà del mondo e ha il primo assoluto diritto di esistere nella sua identità esclusiva e indiscutibile.
Il mondo non si cambia con le buone intenzioni e così i capitomboli sociali ce li siamo fatti, o quasi. Dagli sguardi, le paure, le frasi di commiato alle discriminazioni nel lavoro, nei negozi, durante i viaggi. Così costante e quotidiano da scatenare quella forma di attivismo che ormai porto avanti da tanti anni.
Tra le pieghe dell’effimera umanità esiste il bullismo. Mia figlia Diana, oggi quasi 16 anni, incontra il suo primo inciampo a cinque anni e mezzo, quando in prima elementare viene chiamata per aiutare con la sorella maggiore Diletta che frequenta la quinta. Avevamo fatto prove, progetti, consulenze psicologiche. Era un anno. Sarebbe stata una bellissima esperienza per tutte e due e invece l’inizio del baratro in una società impreparata e avvolta ancora in larga parte da tanta presuntuosa ignoranza.
Oggi Diana porta la sua storia come testimonianza positiva: ne è uscita e vuole dare una mano a chi vive il dramma e si sente come si è sentita lei. Dopo un suo percorso lungo e doloroso approda tra i giovani a dire la sua. Questa è una giovane sibling. La figlia sana che in troppi hanno assalito, giudicato, criticato.
Da genitore è difficile accettare di non essermi resa in conto in tempo, di non aver capito prima. Non è scontato e se anche io decido di raccontare questo pezzo di storia è perché ritengo fondamentale che tutti troviamo il coraggio di metterci in discussione e vivere nella consapevolezza che i buoni intenti non bastano. L’amore non basta. Serve il coraggio di mostrarsi e di piegarsi al pugno nello stomaco. Perché tutti possano poi stupirsi di come la vita offra sempre la possibilità di cambiare tutto e andare avanti in modo giusto, positivo e costruttivo. La vita vale sempre la pena.