All’inizio dell’anno nuovo tornerò a visitare il sacrario delle Fosse Ardeatine e porterò con me i miei quattro nipoti, che hanno un’età compresa fra i 16 e i 21 anni. Per questo, ho voluto “ripassare” la storia dell’attentato di via Rasella e della conseguente rappresaglia nazista, consumatasi in quella che allora era l’estrema periferia di Roma.
Nel 1999 Alberto Benzoni – mio collega all’Iri ma soprattutto compagno socialista – pubblicò (coautrice la figlia Elisa) un libro (Attentato e rappresaglia. Il PCI e via Rasella) che provocò un vivace dibattito e di cui provo a riassumere i punti salienti:
1. L’attentato non aveva alcun valore “militare”, essendo le vittime dei riservisti altoatesini senza ruoli di combattenti. Implicava invece dei rischi per la popolazione civile (e infatti ci furono 3 o 4 vittime, fra cui un ragazzino di 13 anni) e la certezza di una dura rappresaglia nazista;
2. Esso fu voluto dai Gap e dal Pci, senza un pieno assenso – ma anche senza una esplicita opposizione – delle altre componenti della Resistenza romana;
3. Il carattere straordinario dell’attentato, senza pari in altre capitali europee, e il numero delle sue vittime (i morti tedeschi furono 33) avrebbero certamente portato a una dura rappresaglia da parte dei tedeschi;
4. La rappresaglia era proprio “l’obiettivo” del Pci e dei Gap, che volevano così indurre la popolazione romana a unirsi alle azioni contro gli occupanti tedeschi.
All’epoca – condividendo con Benzoni una scarsa simpatia per il Pci (e in particolare per Palmiro Togliatti, complice delle purghe staliniane e autore della oscena amnistia del Dopoguerra) – fui sostanzialmente convinto della validità delle sue tesi. E in parte lo sono tuttora. Tuttavia, scorrendo dopo venti anni le pagine del suo libro, trovo eccessiva (più da militante socialista e anticomunista che da storico) la foga polemica contro il Pci, che porta Benzoni ad affermazioni come questa: “Qui la rappresaglia non è un costo ma un beneficio… direttamente proporzionale al suo costo umano”.
Parlando di questo tema con un amico che la pensa diversamente, egli mi ha suggerito di leggere il libro di Alessandro Portelli L’ordine è già stato eseguito (Donzelli, 1999) per avere una diversa interpretazione della vicenda. Nel suo ampio e documentatissimo studio Portelli sostiene una tesi del tutto diversa da quella del libro di Benzoni, cui dedica solo una nota molto critica.
Portelli ricorda che il dovere di colpire i tedeschi senza porsi il problema delle rappresaglie fu sostenuto a Roma non solo dal Pci, ma anche dal Partito di Azione e in tutta Italia dalla grande maggioranza delle formazioni partigiane. E non concorda con quanti hanno sostenuto, nel corso degli anni, che Carla Capponi e Rosario Bentivegna avrebbero dovuto “consegnarsi” ai tedeschi, perché la rappresaglia – voluta immediatamente da Hitler, che era partito con la richiesta di 50 ostaggi per ogni “vittima”- avrebbe comunque avuto luogo e perché seguendo questa logica non sarebbe stata possibile alcuna forma di Resistenza.
Fra l’altro – ricorda Portelli – l’annuncio della rappresaglia fu dato solo dopo che essa era stata eseguita e non vi fu alcuna richiesta agli autori dell’attentato di “presentarsi”. Quanto è stato detto all’infinito (che gli attentatori avrebbero dovuto consegnarsi ai tedeschi) è giudicato da Portelli come ”un senso comune intriso di disinformazione, che rovescia la responsabilità del massacro sui partigiani”.
Ma il giudizio sulla scelta delle “vittime” e sul luogo e le modalità dell’attentato è molto critico. E io aggiungo, come parere di buon senso, che sarebbe stato più rischioso per Bentivegna e Capponi – ma più utile per la Resistenza romana – attaccare a viso aperto un obiettivo militare come una caserma o un nucleo di soldati tedeschi “in servizio”, provocando una rappresaglia molto meno atroce.
Escono male dal libro di Portelli le figure di Bentivegna (un teorico della violenza) e soprattutto di Guglielmo Blasi, che collaborò all’attentato: un delinquente comune, che durante una rapina fu arrestato e passò subito dall’altra parte, denunciando e facendo arrestare molti esponenti della Resistenza, fra cui Luigi Pintor.
Non tento nemmeno di sintetizzare più di così un’opera complessa ed esauriente come quella di Portelli, che racconta mille episodi di resistenza e di eccidi dei nazisti (le fucilazioni di decine di partigiani a Forte Bravetta e la bella vicenda di Salvo D’Acquisto). Accenno soltanto – in chiusura – al comunicato con cui L’Osservatore Romano diede notizia della rappresaglia il giorno dopo la stessa, parlando di “vittime” (i tedeschi uccisi a via Rasella), “persone sacrificate” (i 335 uccisi alle Fosse Ardeatine) e “colpevoli sfuggiti all’arresto” (i partigiani).
Dunque – osserva Portelli – secondo il quotidiano del Vaticano, le vittime sono solo i tedeschi uccisi a via Rasella, mentre i morti delle Ardeatine sono solo persone sacrificate. Ancora una prova della pavidità delle alte gerarchie ecclesiastiche, che addirittura impedirà a Pio XII di denunciare con forza la razzia degli ebrei del 16 ottobre di quel maledetto 1944.
Aggiungo che non ho condiviso l’assegnazione di una Medaglia d’Oro a Carla Capponi e di una d’Argento a Rosario Bentivegna, autori di un attentato discutibile e dalle conseguenze funeste. Come figlio del comandante della Brigata Maiella, mi chiedo allora quante Medaglie d’Oro avrebbero dovuto andare ai 55 partigiani di mio padre (per lo più contadini poverissimi) che dopo aver liberato la loro Regione, l’Abruzzo, non tornarono alle case distrutte e ai campi abbandonati, ma scelsero di proseguire nella liberazione di una Patria che pure non era mai stata generosa con loro. E morirono da sconosciuti eroi nelle campagne delle Marche e sulle montagne della Romagna.