“Nel corso della storia, i cosiddetti grandi uomini, condottieri o re che siano, sono solo etichette applicate agli eventi, e come etichette essi hanno una connessione minima con l’evento in questione. Qualsiasi loro azione, pur sembrando decisiva, in realtà è determinata dall’evento stesso, che è ineluttabile in quanto predestinato.” Secondo Lev Tolstoj, che scrisse così nel suo capolavoro Guerra e Pace pubblicato nel 1869, il leader è solo “uno schiavo della storia”. Una tesi adattata al rapporto individuo/masse ne Il Capitale di Karl Marx del 1867, il quale, propugnando l’uguaglianza delle classi sociali contro il dominio della casta padronale, riprendeva il principio-chiave della rivoluzione francese: égalité.
Eppure, tutto ciò è contraddetto dalla rivoluzione russa del 1917, che doveva essere invece l’applicazione pratica della teoria marxista e tolstoiana. Al contrario, fu proprio la leadership di Lenin a determinare gli eventi successivi e non viceversa: le stragi dei rivali politici compiute dai bolscevichi indirizzarono il socialismo nel senso compiuto della dittatura del proletariato; ancora una volta, era un gruppo ristretto che dominava le masse, celebrando con il culto della personalità l’Individuo over all. Successivamente con Stalin, tale culto e i conseguenti genocidi furono portati alle estreme conseguenze, fino alla morte del Piccolo Padre e la denuncia postuma dei suoi crimini a opera di Nikita Kruscev.
La leadership moderna in Sudamerica
Nel bene, e soprattutto nel male, i leader sono stati pressoché imprescindibili nella successione degli eventi, e non viceversa. Se Lenin e Stalin fossero periti prima del tempo, l’Unione Sovietica sarebbe diventata la macchina tritacarne che ha cancellato la vita di milioni di persone? Ne dubito. Se Adolf Hitler fosse rimasto ucciso nel putsch di Monaco, la Germania avrebbe insistito nello sterminio folle dell’Olocausto? Forse no.
E ancora, senza l’avvento dell’Ayatollah Khomeini, magari l’Iran non sarebbe diventata la teocrazia che è attualmente. Ma soprattutto, se non fosse stato per Fidel Castro – il Líder Maximo per eccellenza – la Rivoluzione Cubana sarebbe mai scoppiata? Presumo di no, alla luce della successiva uccisione di Che Guevara, che mise fine al suo ambizioso progetto di socialismo Tricontinentale. Oggi tutto è cambiato: in una società liquida dove i social e il consumismo a oltranza hanno spazzato via le ideologie, i capi di stato long term stancano.
Lo ha capito bene Raúl Castro, che dopo la morte di Fidel si è affrettato a scaricare il pesante fardello al successore Díaz-Canel, il quale, mantenendo un basso profilo, ha avviato subito un percorso di riforme, attraverso un referendum che ha sancito la proprietà privata, facilitando così l’imprenditoria particular, inserendo nella Costituzione cubana principi impensabili ai tempi duri del castrismo: la presunzione d’innocenza nel campo giuridico e la libertà di sposarsi tra individui dello stesso sesso. Il merito di quest’ultima va attribuito proprio alla nipote di Fidel, Mariela Castro, che a tal fine si era messa contro lo zio e lo stesso padre.
Se nel caso cubano questa nuova tendenza ha portato frutti positivi, al contrario in Ecuador e Bolivia ha cancellato gli innegabili benefici che l’atipico socialismo andino di Rafael Correa e Evo Morales aveva portato agli strati più indigenti della popolazione.
In Ecuador, dopo 10 anni di Revolución Ciudadana che aveva consentito al Paese di emanciparsi dagli Stati Uniti creando un solido welfare – di cui la sanità gratuita era il fiore all’occhiello – Lenin Moreno ha ripristinato i dogmi del Fmi, riducendo gli adeguamenti salariali, abolendo i sussidi energetici e raddoppiando i costi del carburante, fino a provocare le rivolte indigene che lo hanno costretto a rimangiarsi la riforma energetica.
In Bolivia, dopo 13 anni di socialismo indigenista, con il pretesto di brogli elettorali dietro la riconferma di Morales alla presidenza – vittoria che egli stesso aveva annullato dopo i primi disordini – la contro-rivoluzione dei ceti medio-alti, appartenenti alla borghesia bianca e meticcia, ha spazzato via il governo legittimo, esautorando dal Parlamento i deputati indios, che rappresentavano oltre la metà della popolazione boliviana, e provocando proteste dove hanno trovato la morte decine di manifestanti. In entrambi i casi, a nulla è servito aver dimezzato il tasso di povertà, aprendo il mercato all’iniziativa privata sotto la supervisione dello Stato. Avidità e brama di potere dei padroncini hanno avuto la meglio in poco tempo.
Mentre paradossalmente in Venezuela il regime di Nicolas Maduro continua a rimanere in sella, malgrado il quadro di miseria generale e le continue violazioni dei diritti umani.
I due ex leader se la sono anche cercata: Correa, già nel mirino della stampa nazionale che lo ha ripetutamente massacrato, si è messo in urto anche con il Conaie, l’agguerrita confederazione indigena, la stessa che poi ha messo in ginocchio Moreno. Morales dal canto suo prima ha forzato la mano per candidarsi a un quarto mandato presidenziale non previsto dalla Costituzione, ignorando per giunta un referendum popolare che si era pronunciato contro.
Mentre Correa ha avuto il buon gusto di ritirarsi, lasciando campo libero al suo vice che lo ha però tradito, Morales ha fatto il gioco dei suoi nemici, che lo hanno esposto alla gogna mediatica e costretto all’esilio dopo la ribellione dell’esercito. Tuttavia, le cause reali della loro caduta sono state:
1) Non essere miliardari;
2) Non avere alleati potenti (la Cina sfrutta le risorse del sottosuolo andino, ma non ha mosso un dito per aiutarli);
3) Usare poco Twitter.
Requisiti che consentono invece a Donald Trump di rimanere saldamente al comando, infischiandosene della richiesta di impeachment. Il quesito finale è: se egli non fosse diventato presidente, rischieremmo oggi un terzo conflitto mondiale dopo l’assassinio dell’iraniano Soleimani?