“Non si è suicidato, è stato ucciso. Doveva darmi 20mila euro, lì aveva con sé. Ma quei soldi io non li ho ricevuti e non sono mai stati trovati”. È quanto ha dichiarato l’8 gennaio 2020 Fabio Miradossa, il pusher napoletano da cui si riforniva Pantani e che ha patteggiato una condanna per spaccio nella vicenda legata al Pirata. La madre Tonina lo aveva dichiarato fin da subito: “Me l’hanno ammazzato”. Quasi sedici anni di ricostruzioni e di dubbi. Sia per la morte che per l’esclusione del Pirata dal Giro del 1999.
Marzo 2016. Il pm Sergio Sottani della procura di Forlì sostiene che “un clan camorristico minacciò un medico per costringerlo ad alterare i test e far risultare Pantani fuori norma”. L’ipotesi è quella che il Pirata doveva essere fermato, con ogni probabilità per un giro di scommesse miliardarie. L’indizio da cui partire arriva da una intercettazione ambientale di un affiliato a un clan che per cinque volte ripete la parola “sì”, alla domanda se il test fosse stato alterato. Il bandito Renato Vallanzasca invece racconta che “un membro di un clan camorristico in carcere mi consigliò fin dalle prime tappe di puntare tutti i soldi che avevo sulla vittoria dei rivali di Pantani: “Non so come, ma il pelatino non arriva a Milano. Fidati”.
Tre anni dopo un altro capitolo. Un dossier di 56 pagine viene consegnato alla Commissione Parlamentare Antimafia dall’ex generale di brigata della Guardia di Finanza Umberto Rapetto. La richiesta è l’avvio di una nuova inchiesta sul caso della morte del Pirata a seguito di nuove analisi effettuate sui filmati. Il corpo, si sostiene, venne spostato nel periodo tra la morte e il rinvenimento. Rapetto pone l’attenzione anche sulla presenza di un “enorme grumo di sangue sul pavimento con al centro una pallina bianca, intonsa, perfettamente bianca”. Un movente credibile e una possibile causa alternativa del decesso, ad oggi, non sono in ogni caso mai stati trovati.