Calogero Minnino non era finito “nel mirino della mafia a causa di sue presunte ed indimostrate promesse non mantenute“. Al contrario l’ex ministro della Democrazia cristiana era “una vittima designata della mafia, proprio a causa della sua specifica azione di contrasto a ‘cosa nostra’ quale esponente del governo del 1991″. È questo uno dei passaggi principali messi nero su bianco dalla corte d’Appello di Palermo. In 1149 pagine di motivazioni i giudici Adriana Piras, Massimo Corleo e Maria Elena Gamberini spiegano perché hanno assolto l’ex minstro dall’accusa di violenza o minaccia ad un corpo politico o istituzionale dello Stato. È il reato contestato all’interno del processo sulla cosiddetta Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. Il procedimento principale si è concluso in primo grado nell’aprile del 2018 con pesanti condanne per i vertici del Ros dei primi anni ’90, Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, per l’ex senatore di Forza Italia, Marcello Dell’Utri, per il boss di Cosa nostra Leoluca Bagarella. Mannino, invece, ha scelto di farsi processare con il rito abbreviato ed è stato assolto sia in primo che in secondo grado.
“Mannino minacciato dalla mafia per sua azione di contrasto” – E adesso la corte d’appello spiega perché dal suo punto di vista l’ex esponente del Dc è innocente. “Non solo non è possibile ribaltare con valutazione rafforzata, al di là, cioè, di ogni ragionevole dubbio, la sentenza di primo grado trasformandola in condanna ma anzi, è stata in questa sede ulteriormente acclarata l’assoluta estraneità dell’imputato a tutte le condotte materiali contestategli in rubrìca e tanto a prescìndere da una valutazione più complessiva – sìa dal punto di vista della ricostruzione storica, sia di quella giuridica ~ della cosiddetta trattativa Stato – mafia“, scrivono i magistrati. “La valutazione che si è appalesata del tutto superflua rispetto alle concrete e troncanti risultanze relative alla specifica posizione del Mannino e che, dunque, è insuscettibile di approfondimento in questa sede”, continua la corte, che in pratica smentisce le contestazioni della pubblica accusa. Mannino è finito a processo perché accusato di aver dato praticamente avvio alla Trattativa: finito nella lista dei politici che non avevano mantenuto i patti con Cosa nostra, era destinatario di una sentenza di morte emessa da Totò Riina. Per questo motivo aveva avviato l’interlocuzione con Cosa nostra, grazie ai suoi rapporti con i vertici dei Ros dei carabinieri, cioè Mori e Subranni. Una ricostruzione che non convince i giudici: “Non è stato affatto dimostrato – scrivono – che il Mannino fosse finito anch’egli nel mirino della mafia a causa di sue presunte ed indìmostrate promesse non mantenute (addirittura, quella del buon esito del primo maxi processo) ma, anzi, al contrario, è piuttosto emerso dalla sua sentenza assolutoria per il reato di cui agli artt. 110, 416 bis c.p., che costui fosse una vittima designata della mafia, proprio a causa della sua specifica azione di contrasto a ‘cosa nostrà quale esponente del governo del 1991, in cui era rientrato dal mese di febbraio di quello stesso anno”.
“Accuse a Mannino infondante e incroguenti” – Secondo la corte in pratica la tesi “della procura di Palermo riguardo alla posizione” dell’ex ministro Mannino, imputato nel processo stralcio della trattativa stato-mafia “si appalesa non solo infondata, ma anche totalmente illogica ed incongruente con la ricostruzione complessiva dei fatti, con la quale non combacia da qualunque punto di vista la si voglia guardare”. Secondo i giudici “se davvero, come da contestazione, l’imputato fosse stato così vicino a Cosa nostra da essere un suo stabile interlocutore politico, costui non avrebbe di certo avuto bisogno, per proporle un patto per sé salvifico, né dei militari del Ros né del suo acerrimo nemico politico, Vito Ciancimino, ben potendo presentarsi egli stesso ai vertici del sodalizio come prestigioso mediatore (all’epoca era ancora Ministro) per sé stesso e per lo Stato italiano”.
“Non fu trattativa ma un’operazione investigativa” – Ma i giudici vanno oltre. E smentiscono ogni passaggio che definisce la Trattativa aperta dai carabinieri del Ros con Cosa nostra come un reato: “Tutte le fonti, sia quelle dirette (il generale Mori e il colonnello De Donno) sentite in epoca per loro non sospetta come testimoni di una vicenda ancora lontana dal partorire le indagini a loro carico, sia quelle indirette e provenienti, peraltro, da personalità istituzionali di pacifica onestà e integrità morale, sono risultate convergenti nel descrivere l’iniziativa assunta dal Ros come un’operazione investigativa di polizia giudiziaria“. E dunque i colloqui da parte dei carabinieri di Vito Ciancimino non è da considerararsi parte fondamentale della Trattativa visto che quell’iniziativa fu “comunicata al loro diretto superiore gerarchico, che allora era il generale Subranni e fu realizzata attraverso la promessa di benefici personali a Ciancimino, per mantenere la quale era stata chiesta quella ‘copertura politicà intesa in tale esclusivo senso – cioè l’assecondare, ove possibile, le richieste nell’interesse del Ciancimino, prossimo alla carcerazione – così come pacificamente inteso dalla Ferraro, da Martelli e dallo stesso Violante (che, invero, rifiutò il contatto personale, indirizzandolo verso i canali istituzionali) con la sollecitazione di un’attività di infiltrazione in Cosa nostra di Ciancimino, che ne avrebbe dovuto contattare i capi, tanto al fine della cattura di Totò Riina, interrompendo, così, la stagione delle stragi”. E oltretutto c’è da considerare che – sempre secondo la corte – Mannino è innocente perché “nessuna delle fonti dichiarative sentite, nel descrivere i contatti avviati dal colonnello Mori per favorire la collaborazione di Ciancimino ha fatto invece riferimento ad un preesistente ‘mandato’ politico (quello asseritamente costituito da Mannino, secondo la pubblica accusa) che gli alti ufficiali avrebbero posto a giustificazione di quell’operazione ma, al contrario, hanno tutte univocamente indicato in una richiesta di sostegno ‘politico ex post rispetto all’iniziativa e consistente nel non ostacolare quell’operazione, eventualmente assecondando, ove possibile, le richieste di benefici personali per Ciancimino (il passaporto, i propri beni, etc.), dietro l’assicurazione della cattura dei latitanti“.
Su Borsellino-Ros ricostruzione opposta rispetti al procedimento principale – Ma non solo. Perché la sentenza della corte d’Appello su Mannino smentisce quanto affermato in alcuni passaggi dalla corte d’assise di Palermo nelle motivazioni prodotte per spiegare la condanna di alti ufficiali dei carabinieri, di Dell’Utri, Bagarella e Cinà. “Appare altamente probabile – scrivono i giudici nella sentenza Mannino – che gli alti ufficiali del Ros avessero informato della loro iniziativa anche il giudice Borsellino, che con Mori e De Donno aveva all’epoca un rapporto di assoluta ed esclusiva fiducia, tanto da chiedere di vederli, riservatamente, nei locali della caserma dei Carabinieri e non in quelli della Procura, per parlare del rapporto ‘mafia – appaltì nel luglio 1992, poco prima della sua uccisione”. Quindi secondo i giudici della corte d’Appello Paolo Borsellino sapeva del dialogo avviato dai carabinieri del Ros perché erano stati gli stessi militari a comunicarglielo. “Quando il giudice (Borsellino ndr) ne era stato informato dalla dottoressa Ferraro non ne era rimasto affatto stupito, né contrariato – sostiene ancora la corte d’Appello – rispondendo alla dirigente degli Affari Penali del Ministero che andava bene e che se ne sarebbe occupato lui. Se, dunque, si trattava di iniziativa discussa dagli alti ufficiali del Ros col giudice o, comunque, prossima all’asseverazione di Borsellino che già ne aveva preso atto, senza stupirsene, a fine giugno 1992 parlando con la Ferraro, l’ipotesi che l’operato di Mori e De Donno celasse l’istigazione del Mannino per avere salva la vita, diventa una remota illazione, priva di qualsivoglia giustificazione logica, in tale ricostruito contesto”. Esattamente il contrario da quanto sostenuto dalla corte d’Assise nel processo che si è svolto col rito ordinario: “Ove non si volesse prevenire alla conclusione dell’accusa che Riina abbia deciso di uccidere Borsellino temendo la sua opposizione alla ‘trattativa’ conclusione che peraltro trova una qualche convergenza nel fatto che secondo quanto riferito dalla moglie, Agnese Piraino Leto, Borsellino, poco prima di morire, le aveva fatto cenno a contatti tra esponenti infedeli delle istituzioni e mafiosi, in ogni caso non c’è dubbio che quell’invito al dialogo pervenuto dai carabinieri attraverso Vito Ciancimino costituisca un sicuro elemento di novità che può certamente avere determinato l’effetto dell’accelerazione dell’omicidio di Borsellino, con la finalità di approfittare di quel segnale di debolezza proveniente dalle istituzioni dello Stato e di lucrare, quindi, nel tempo dopo quell’ulteriore manifestazione di incontenibile violenza concretizzatasi nella strage di via d’Amelio, maggiori vantaggi rispetto a quelli che sul momento avrebbero potuto determinarsi in senso negativo”. Dunque per i giudici del primo grado del processo principale della Trattativa, l’apertura del dialogo tra i Ros e Ciancimino avrebbe accelerato l’omicidio Borsellino, per quelli di secondo grado del processo Mannino, invece, il magistrato era a conoscenza delle mosse dei militari di cui addirittura si fidava.
“Omicidio Lima, Capaci e via d’Amelio non servivano per indurre Stato a trattare” – Non è l’unico passaggio in cui la corte d’Appello smentisce quanto messo nero su banco dalla corte d’assise. “La strategia avviata con l’omicidio Lima e certamente proseguita con la strage di Capaci e quella di Via D’Amelio non era certamente quella finalizzata ad ottenere dallo Stato concessioni o ad indurlo a trattare”, scrivono i giudici sempre nelle motivazioni dell’assoluzione di Mannino. E dunque l’omicidio di Salvo Lima, quelli di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino e degli uomini della scorta non sono da iscrivere all’interno della guerra allo Stato lanciata da Riina. Questo perché secondo la corte d’Appello “l’omicidio Lima e la strage di Capaci non possono in alcun modo integrare le minacce di cui all’art. 338 c.p. alla cui trasmissione allo Stato, secondo la contestazione della rubrica, avrebbero variamente concorso diversi esponenti delle istituzioni, giacché a quell’epoca il contatto – finalizzato, secondo l’accusa, ad una trattativa con ‘cosa nostra’ – tra Mori, De Danno e Ciancimino non si era ancora compiutamente realizzato e, dunque, non si era certamente creato, sempre secondo l’ipotesi accusatoria, il presupposto per l’eventuale veicolazione, attraverso soggetti istituzionali, concorrenti esterni alla minaccia, delle proposte contenute nel cd. ‘papello‘, dietro il ricatto di ulteriori stragi”.
“Mancata proroga 41 bis non c’entra con la trattativa” – Secondo i giudici, tra l’altro, “non può di certo sostenersi che l’omessa proroga dei 336 decreti applicativi di 41 bis in scadenza a novembre 1993 sia stato l’effetto della cd. trattativa“. Il cedimento sul carcere duro per detenuto mafiosi era uno degli oggetti della Trattativa. Perché la decadenza dei 336 decreti non è da collegare alla trattativa secondo la corte? “Perché non fu posta in essere dal Ministro personalmente – non imputato del reato di cui all’art. 338 c.p. – e non dal Di Maggio (Francesco vicecapo del Dap), mai coinvolto in quella articolata procedura”. E poi perché secondo i magistrati creò “un vantaggio davvero modesto per ‘cosa nostra’, a fronte delle cd. ‘stragi in continente‘, a ben vedere protrattesi anche dopo la mancata rinnovazione di quei decreti (la contestazione dell’attentato allo Stadio Olimpico si colloca tra la fine del 1993 e l’inizio del 1994) e, dunque, illogicamente quanto meno secondo la tesi della ‘trattativa’ – oltre e, soprattutto, nonostante l’asserito segno di distensione”.
“Da Violante inspiegabile silenzio” – Secondo i giudici della corte d’Appello l’ex presidente della commissione Antimafia Luciano Violante avrebbe tenuto “un inspiegabile silenzio durato troppi anni” su quanto appreso dall’ufficiale del Ros Mario Mori nell’autunno del 1992. Cosa aveva saputo? L’intenzione di Vito Ciancimino di avere un colloquio. I giudici criticano il gup Marina Petruzzella che in primo grado avrebbe fatto “laconiche osservazioni” che “non sono condisibili perché orientate a giustificare” il “silenzio inspiegabile di Violante”. “Si osserva – scrive la corte – che i 17 anni di ritardo delle dichiarazioni di Violante non sono la spiegazione della cattiva valutazione che il pm ha fatto della sua testimonianza, ma sono anzi l’essenza stessa della contestazione che gli si è mossa. Come è possibile che abbia reso quelle dichiarazioni solo 17 anni dopo i fatti e soprattutto solo dopo che era diventato di dominio pubblico il fatto che Ciancimino avesse iniziato a parlare?”.
“Testimoni tardivi dopo che ha parlato Ciancimino? No, testi responsabili” – E a proposito di Massimo Ciancimino è diversa l’opinione della corte d’Appello sugli altri testimoni eccellenti che hanno parlato dopo la testimonianza del figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo. Per la corte d’Assise che ha condannato Mori, De Donno, Subranni, Dell’Utri e Bagarella si trattava di “testimoni” autori di ricordi “certamente tardivi” in seguito al “clamore mediatico”. Per la corte d’appello invece “non possono considerarsi tardive ed inattendibili le dichiarazioni rese in modo convergente da tutti i soggetti istituzionali sentiti che, non appena avuta pubblica notizia delle dichiarazioni (dalla Corte d’Assise ritenute inattendibili e da questa Corte inutilizzabili) rese prima ancora che agli inquirenti a stampa e televisione da Massimo Ciancimino, negli anni 2009 – 2010, dunque ex post rispetto alla vicenda in esame, si sono sentiti responsabilmente tenuti e lo hanno fatto in tempo reale all’acquisizione deila notìzia dai mass media, a riferire all’autorità giudiziaria informazioni che, all’epoca, non avevano loro destato alcun sospetto né dì anomalie, né di illiceità sull’operato del Ros”. Due sentenze con due visioni opposte su uno dei passaggi fondamentali del Paese.
Giustizia & Impunità
Trattativa, le motivazioni dell’assoluzione di Mannino: “Estraneo a tutte le contestazioni. Tesi dell’accusa illogica ed incongruente”
In 1149 pagine di motivazioni i giudici Adriana Piras, Massimo Corleo e Maria Elena Gamberini spiegano perché hanno assolto l'ex minstro dall'accusa di violenza o minaccia ad un corpo politico o istituzionale dello Stato. È il reato contestato all'interno del processo sulla cosiddetta Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. Il procedimento principale si è concluso in primo grado nell'aprile del 2018 con pesanti condanne. Mannino, invece, ha scelto di farsi processare con il rito abbreviato ed è stato assolto sia in primo che in secondo grado
Calogero Minnino non era finito “nel mirino della mafia a causa di sue presunte ed indimostrate promesse non mantenute“. Al contrario l’ex ministro della Democrazia cristiana era “una vittima designata della mafia, proprio a causa della sua specifica azione di contrasto a ‘cosa nostra’ quale esponente del governo del 1991″. È questo uno dei passaggi principali messi nero su bianco dalla corte d’Appello di Palermo. In 1149 pagine di motivazioni i giudici Adriana Piras, Massimo Corleo e Maria Elena Gamberini spiegano perché hanno assolto l’ex minstro dall’accusa di violenza o minaccia ad un corpo politico o istituzionale dello Stato. È il reato contestato all’interno del processo sulla cosiddetta Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. Il procedimento principale si è concluso in primo grado nell’aprile del 2018 con pesanti condanne per i vertici del Ros dei primi anni ’90, Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, per l’ex senatore di Forza Italia, Marcello Dell’Utri, per il boss di Cosa nostra Leoluca Bagarella. Mannino, invece, ha scelto di farsi processare con il rito abbreviato ed è stato assolto sia in primo che in secondo grado.
“Mannino minacciato dalla mafia per sua azione di contrasto” – E adesso la corte d’appello spiega perché dal suo punto di vista l’ex esponente del Dc è innocente. “Non solo non è possibile ribaltare con valutazione rafforzata, al di là, cioè, di ogni ragionevole dubbio, la sentenza di primo grado trasformandola in condanna ma anzi, è stata in questa sede ulteriormente acclarata l’assoluta estraneità dell’imputato a tutte le condotte materiali contestategli in rubrìca e tanto a prescìndere da una valutazione più complessiva – sìa dal punto di vista della ricostruzione storica, sia di quella giuridica ~ della cosiddetta trattativa Stato – mafia“, scrivono i magistrati. “La valutazione che si è appalesata del tutto superflua rispetto alle concrete e troncanti risultanze relative alla specifica posizione del Mannino e che, dunque, è insuscettibile di approfondimento in questa sede”, continua la corte, che in pratica smentisce le contestazioni della pubblica accusa. Mannino è finito a processo perché accusato di aver dato praticamente avvio alla Trattativa: finito nella lista dei politici che non avevano mantenuto i patti con Cosa nostra, era destinatario di una sentenza di morte emessa da Totò Riina. Per questo motivo aveva avviato l’interlocuzione con Cosa nostra, grazie ai suoi rapporti con i vertici dei Ros dei carabinieri, cioè Mori e Subranni. Una ricostruzione che non convince i giudici: “Non è stato affatto dimostrato – scrivono – che il Mannino fosse finito anch’egli nel mirino della mafia a causa di sue presunte ed indìmostrate promesse non mantenute (addirittura, quella del buon esito del primo maxi processo) ma, anzi, al contrario, è piuttosto emerso dalla sua sentenza assolutoria per il reato di cui agli artt. 110, 416 bis c.p., che costui fosse una vittima designata della mafia, proprio a causa della sua specifica azione di contrasto a ‘cosa nostrà quale esponente del governo del 1991, in cui era rientrato dal mese di febbraio di quello stesso anno”.
“Accuse a Mannino infondante e incroguenti” – Secondo la corte in pratica la tesi “della procura di Palermo riguardo alla posizione” dell’ex ministro Mannino, imputato nel processo stralcio della trattativa stato-mafia “si appalesa non solo infondata, ma anche totalmente illogica ed incongruente con la ricostruzione complessiva dei fatti, con la quale non combacia da qualunque punto di vista la si voglia guardare”. Secondo i giudici “se davvero, come da contestazione, l’imputato fosse stato così vicino a Cosa nostra da essere un suo stabile interlocutore politico, costui non avrebbe di certo avuto bisogno, per proporle un patto per sé salvifico, né dei militari del Ros né del suo acerrimo nemico politico, Vito Ciancimino, ben potendo presentarsi egli stesso ai vertici del sodalizio come prestigioso mediatore (all’epoca era ancora Ministro) per sé stesso e per lo Stato italiano”.
“Non fu trattativa ma un’operazione investigativa” – Ma i giudici vanno oltre. E smentiscono ogni passaggio che definisce la Trattativa aperta dai carabinieri del Ros con Cosa nostra come un reato: “Tutte le fonti, sia quelle dirette (il generale Mori e il colonnello De Donno) sentite in epoca per loro non sospetta come testimoni di una vicenda ancora lontana dal partorire le indagini a loro carico, sia quelle indirette e provenienti, peraltro, da personalità istituzionali di pacifica onestà e integrità morale, sono risultate convergenti nel descrivere l’iniziativa assunta dal Ros come un’operazione investigativa di polizia giudiziaria“. E dunque i colloqui da parte dei carabinieri di Vito Ciancimino non è da considerararsi parte fondamentale della Trattativa visto che quell’iniziativa fu “comunicata al loro diretto superiore gerarchico, che allora era il generale Subranni e fu realizzata attraverso la promessa di benefici personali a Ciancimino, per mantenere la quale era stata chiesta quella ‘copertura politicà intesa in tale esclusivo senso – cioè l’assecondare, ove possibile, le richieste nell’interesse del Ciancimino, prossimo alla carcerazione – così come pacificamente inteso dalla Ferraro, da Martelli e dallo stesso Violante (che, invero, rifiutò il contatto personale, indirizzandolo verso i canali istituzionali) con la sollecitazione di un’attività di infiltrazione in Cosa nostra di Ciancimino, che ne avrebbe dovuto contattare i capi, tanto al fine della cattura di Totò Riina, interrompendo, così, la stagione delle stragi”. E oltretutto c’è da considerare che – sempre secondo la corte – Mannino è innocente perché “nessuna delle fonti dichiarative sentite, nel descrivere i contatti avviati dal colonnello Mori per favorire la collaborazione di Ciancimino ha fatto invece riferimento ad un preesistente ‘mandato’ politico (quello asseritamente costituito da Mannino, secondo la pubblica accusa) che gli alti ufficiali avrebbero posto a giustificazione di quell’operazione ma, al contrario, hanno tutte univocamente indicato in una richiesta di sostegno ‘politico ex post rispetto all’iniziativa e consistente nel non ostacolare quell’operazione, eventualmente assecondando, ove possibile, le richieste di benefici personali per Ciancimino (il passaporto, i propri beni, etc.), dietro l’assicurazione della cattura dei latitanti“.
Su Borsellino-Ros ricostruzione opposta rispetti al procedimento principale – Ma non solo. Perché la sentenza della corte d’Appello su Mannino smentisce quanto affermato in alcuni passaggi dalla corte d’assise di Palermo nelle motivazioni prodotte per spiegare la condanna di alti ufficiali dei carabinieri, di Dell’Utri, Bagarella e Cinà. “Appare altamente probabile – scrivono i giudici nella sentenza Mannino – che gli alti ufficiali del Ros avessero informato della loro iniziativa anche il giudice Borsellino, che con Mori e De Donno aveva all’epoca un rapporto di assoluta ed esclusiva fiducia, tanto da chiedere di vederli, riservatamente, nei locali della caserma dei Carabinieri e non in quelli della Procura, per parlare del rapporto ‘mafia – appaltì nel luglio 1992, poco prima della sua uccisione”. Quindi secondo i giudici della corte d’Appello Paolo Borsellino sapeva del dialogo avviato dai carabinieri del Ros perché erano stati gli stessi militari a comunicarglielo. “Quando il giudice (Borsellino ndr) ne era stato informato dalla dottoressa Ferraro non ne era rimasto affatto stupito, né contrariato – sostiene ancora la corte d’Appello – rispondendo alla dirigente degli Affari Penali del Ministero che andava bene e che se ne sarebbe occupato lui. Se, dunque, si trattava di iniziativa discussa dagli alti ufficiali del Ros col giudice o, comunque, prossima all’asseverazione di Borsellino che già ne aveva preso atto, senza stupirsene, a fine giugno 1992 parlando con la Ferraro, l’ipotesi che l’operato di Mori e De Donno celasse l’istigazione del Mannino per avere salva la vita, diventa una remota illazione, priva di qualsivoglia giustificazione logica, in tale ricostruito contesto”. Esattamente il contrario da quanto sostenuto dalla corte d’Assise nel processo che si è svolto col rito ordinario: “Ove non si volesse prevenire alla conclusione dell’accusa che Riina abbia deciso di uccidere Borsellino temendo la sua opposizione alla ‘trattativa’ conclusione che peraltro trova una qualche convergenza nel fatto che secondo quanto riferito dalla moglie, Agnese Piraino Leto, Borsellino, poco prima di morire, le aveva fatto cenno a contatti tra esponenti infedeli delle istituzioni e mafiosi, in ogni caso non c’è dubbio che quell’invito al dialogo pervenuto dai carabinieri attraverso Vito Ciancimino costituisca un sicuro elemento di novità che può certamente avere determinato l’effetto dell’accelerazione dell’omicidio di Borsellino, con la finalità di approfittare di quel segnale di debolezza proveniente dalle istituzioni dello Stato e di lucrare, quindi, nel tempo dopo quell’ulteriore manifestazione di incontenibile violenza concretizzatasi nella strage di via d’Amelio, maggiori vantaggi rispetto a quelli che sul momento avrebbero potuto determinarsi in senso negativo”. Dunque per i giudici del primo grado del processo principale della Trattativa, l’apertura del dialogo tra i Ros e Ciancimino avrebbe accelerato l’omicidio Borsellino, per quelli di secondo grado del processo Mannino, invece, il magistrato era a conoscenza delle mosse dei militari di cui addirittura si fidava.
“Omicidio Lima, Capaci e via d’Amelio non servivano per indurre Stato a trattare” – Non è l’unico passaggio in cui la corte d’Appello smentisce quanto messo nero su banco dalla corte d’assise. “La strategia avviata con l’omicidio Lima e certamente proseguita con la strage di Capaci e quella di Via D’Amelio non era certamente quella finalizzata ad ottenere dallo Stato concessioni o ad indurlo a trattare”, scrivono i giudici sempre nelle motivazioni dell’assoluzione di Mannino. E dunque l’omicidio di Salvo Lima, quelli di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino e degli uomini della scorta non sono da iscrivere all’interno della guerra allo Stato lanciata da Riina. Questo perché secondo la corte d’Appello “l’omicidio Lima e la strage di Capaci non possono in alcun modo integrare le minacce di cui all’art. 338 c.p. alla cui trasmissione allo Stato, secondo la contestazione della rubrica, avrebbero variamente concorso diversi esponenti delle istituzioni, giacché a quell’epoca il contatto – finalizzato, secondo l’accusa, ad una trattativa con ‘cosa nostra’ – tra Mori, De Danno e Ciancimino non si era ancora compiutamente realizzato e, dunque, non si era certamente creato, sempre secondo l’ipotesi accusatoria, il presupposto per l’eventuale veicolazione, attraverso soggetti istituzionali, concorrenti esterni alla minaccia, delle proposte contenute nel cd. ‘papello‘, dietro il ricatto di ulteriori stragi”.
“Mancata proroga 41 bis non c’entra con la trattativa” – Secondo i giudici, tra l’altro, “non può di certo sostenersi che l’omessa proroga dei 336 decreti applicativi di 41 bis in scadenza a novembre 1993 sia stato l’effetto della cd. trattativa“. Il cedimento sul carcere duro per detenuto mafiosi era uno degli oggetti della Trattativa. Perché la decadenza dei 336 decreti non è da collegare alla trattativa secondo la corte? “Perché non fu posta in essere dal Ministro personalmente – non imputato del reato di cui all’art. 338 c.p. – e non dal Di Maggio (Francesco vicecapo del Dap), mai coinvolto in quella articolata procedura”. E poi perché secondo i magistrati creò “un vantaggio davvero modesto per ‘cosa nostra’, a fronte delle cd. ‘stragi in continente‘, a ben vedere protrattesi anche dopo la mancata rinnovazione di quei decreti (la contestazione dell’attentato allo Stadio Olimpico si colloca tra la fine del 1993 e l’inizio del 1994) e, dunque, illogicamente quanto meno secondo la tesi della ‘trattativa’ – oltre e, soprattutto, nonostante l’asserito segno di distensione”.
“Da Violante inspiegabile silenzio” – Secondo i giudici della corte d’Appello l’ex presidente della commissione Antimafia Luciano Violante avrebbe tenuto “un inspiegabile silenzio durato troppi anni” su quanto appreso dall’ufficiale del Ros Mario Mori nell’autunno del 1992. Cosa aveva saputo? L’intenzione di Vito Ciancimino di avere un colloquio. I giudici criticano il gup Marina Petruzzella che in primo grado avrebbe fatto “laconiche osservazioni” che “non sono condisibili perché orientate a giustificare” il “silenzio inspiegabile di Violante”. “Si osserva – scrive la corte – che i 17 anni di ritardo delle dichiarazioni di Violante non sono la spiegazione della cattiva valutazione che il pm ha fatto della sua testimonianza, ma sono anzi l’essenza stessa della contestazione che gli si è mossa. Come è possibile che abbia reso quelle dichiarazioni solo 17 anni dopo i fatti e soprattutto solo dopo che era diventato di dominio pubblico il fatto che Ciancimino avesse iniziato a parlare?”.
“Testimoni tardivi dopo che ha parlato Ciancimino? No, testi responsabili” – E a proposito di Massimo Ciancimino è diversa l’opinione della corte d’Appello sugli altri testimoni eccellenti che hanno parlato dopo la testimonianza del figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo. Per la corte d’Assise che ha condannato Mori, De Donno, Subranni, Dell’Utri e Bagarella si trattava di “testimoni” autori di ricordi “certamente tardivi” in seguito al “clamore mediatico”. Per la corte d’appello invece “non possono considerarsi tardive ed inattendibili le dichiarazioni rese in modo convergente da tutti i soggetti istituzionali sentiti che, non appena avuta pubblica notizia delle dichiarazioni (dalla Corte d’Assise ritenute inattendibili e da questa Corte inutilizzabili) rese prima ancora che agli inquirenti a stampa e televisione da Massimo Ciancimino, negli anni 2009 – 2010, dunque ex post rispetto alla vicenda in esame, si sono sentiti responsabilmente tenuti e lo hanno fatto in tempo reale all’acquisizione deila notìzia dai mass media, a riferire all’autorità giudiziaria informazioni che, all’epoca, non avevano loro destato alcun sospetto né dì anomalie, né di illiceità sull’operato del Ros”. Due sentenze con due visioni opposte su uno dei passaggi fondamentali del Paese.
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Il settore guarda con attenzione alle proposte su una legge europea vincolante per le biotecnologie e alla strategia per la bioeconomia, che la Commissione si impegna a presentare entro la fine dell’anno. Ma guarda con attenzione anche agli sviluppi nelle relazioni commerciali in Occidente alla luce della recente entrata in vigore dei dazi di Washington sull’import dall’Unione europea.
“Cinque delle sette più grandi aziende del settore hanno la loro sede nell’Ue”, ha sottolineato l’amministratore delegato del Gruppo L’Oréal, Nicolas Hieronimus.
A Bruxelles i sedici membri dell’Alleanza chiedono politiche per la produzione sostenibile di ingredienti e la formazione di personale per sbloccare il potenziale del settore. Un aspetto legato, secondo l’amministratore delegato di Kiko Milano, Simone Dominici, all’impatto positivo che la cura del corpo e dell’estetica ha sull’autostima e sulla salute mentale dei consumatori. Aspetti non trascurati dallo studio dell’Oxford Economics presentato all’ombra dei palazzi delle istituzioni europee. Il rapporto mostra che la spesa dei consumatori nell’Ue per i prodotti di bellezza e cura della persona ha superato i 180 miliardi di euro e dato lavoro a oltre tre milioni di persone, un numero che supera il totale della forza lavoro presente in 13 Stati membri dell’Ue. Troppi anche gli oneri per l'industria della cosmetica che rendono necessaria una revisione della direttiva sulle acque reflue. Forte dei 496 milioni di euro generati ogni giorno e dei 3,2 milioni di posti di lavoro, la cordata dei grandi nomi dell’industria della bellezza chiede che tutti i settori che contribuiscono ai microinquinanti nelle acque siano ritenuti responsabili, in linea con il principio “chi inquina paga”.
I riflettori dell’Alleanza, che guarda anche agli interessi di tutti gli attori della filiera - dagli agricoltori ai vetrai, importanti nella catena del valore quanto le case di fragranze - sono rivolti in primis sull’attesa revisione del regolamento Reach (Regulation on the registration, evaluation, authorisation and restriction of chemicals), che regolamenta le sostanze chimiche autorizzate e soggette a restrizione nell’Unione europea. L’Alleanza chiede che a questa iniziativa, annunciata nel 2020 come parte del pacchetto sul Green deal, si aggiunga anche una revisione del regolamento sui prodotti cosmetici.
L’appello ha come obiettivo la riduzione degli oneri amministrativi e lo stimolo all'innovazione, senza sacrificare l’approccio basato sul rischio per la salute e la responsabilità per la tutela dell’ambiente. Trasmette ottimismo l’iniziativa della Commissione di considerare delle esenzioni per alcune imprese colpite dalla direttiva della diligenza dovuta che imponeva oneri considerati sproporzionati alle piccole e medie imprese, la colonna portante del settore.
“Vogliamo impiegare più tempo alla sostenibilità, piuttosto che alla rendicontazione amministrativa”, è stato l’appello degli amministratori delegati durante la conferenza stampa che ha preceduto gli incontri istituzionali al Parlamento europeo, tra cui quello con la presidente dell’istituzione, Roberta Metsola. Lo studio presentato dimostra che una parte consistente della cura per la sostenibilità ambientale passa anche dalla cosmetica. L’Oréal ha già annunciato che entro il 2030 il 100% della plastica utilizzata nelle confezioni sarà ottenuta da fonti riciclate o bio-based.
Roma, 18 mar. (Adnkronos) - "Mandare soldati in Ucraina mentre ci sono i bombardamenti è una pazzia e l'Italia non farà questa scelta". Lo ha affermato il capogruppo di Forza Italia al Senato, Maurizio Gasparri, nella dichiarazione di voto sulle risoluzioni presentate sulle comunicazioni al Senato del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in vista del prossimo Consiglio europeo.
Roma, 18 mar. (Adnkronos) - "Gli inglesi sono usciti dall'Europa e adesso ci convocano una volta a settimana, facessero domanda per rientrare nell'Unione europea". Lo ha affermato il capogruppo di Forza Italia al Senato, Maurizio Gasparri, nella dichiarazione di voto sulle risoluzioni presentate sulle comunicazioni al Senato del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in vista del prossimo Consiglio europeo.
Roma, 18 mar. (Adnkronos) - "Dei Servizi segreti non si parla nell'Autogrill, si parla nel Copasir, io all'Autogrill ci vado a comprare il panino". Lo ha affermato il capogruppo di Forza Italia al Senato, Maurizio Gasparri, nella dichiarazione di voto sulle risoluzioni presentate sulle comunicazioni al Senato del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in vista del prossimo Consiglio europeo.
Roma, 18 mar. (Adnkronos) - "Da oggi sono autorizzato a dire che la Meloni non smentisce l'utilizzo di intercettazioni preventive nei confronti di un giornalista che attacca il Governo. È una cosa enorme, che ha a che fare con la dignità delle Istituzioni. Se non vi rendete conto che su questa cosa si gioca il futuro della libertà, allora sappiate che c'è qualcuno che lascia agli atti questa frase, perchè quando intercetteranno voi, in modo illegittimo, con i trojan illegali, saremo comunque dalla vostra parte per difendere il vostro diritto di cittadini, mentre voi oggi vi state voltando dal'altra parte". Lo ha affermato Matteo Renzi nella sua dichiarazione di voto sulle risoluzioni sulle comunicazioni al Senato del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in vista del prossimo Consiglio europeo.
"Giorgia Meloni va al Consiglio europeo senza una linea, senza sapere da che parte stare, senza aver avuto il coraggio di rispondere a quella frase che lei stessa aveva detto: 'come diceva Pericle la felicità consiste nella libertà e la libertà dipende dal coraggio'. Se la felicità e la libertà dipendono dal coraggio, Giorgia Meloni -ha concluso l'ex premier- non è felice, non è libera".
Roma, 18 mar. (Adnkronos) - "Proprio perché sono una patriota metterò questa nazione in sicurezza, perché come dice la nostra Costituzione difendere la Patria è un sacro dovere del cittadino". Lo ha affermato il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, nella replica al Senato sulle comunicazioni in vista del prossimo Consiglio europeo.