“Il sogno della rinascita, sostiene, è a portata di mano. Le attività produttive sono state rilanciate, l’agricoltura è stata modernizzata. Sono stati promossi i beni culturali e aperti nuovi musei come luoghi della memoria civile. Il Belice chiede solo di chiudere con poche risorse la pagina del terremoto”.
Nicola Catania, sindaco di Partanna e presidente del Comitato dei sindaci dei comuni siciliani colpiti dal terremoto, solo due anni fa nutriva molte speranze. Nello Stato italiano. Anzi nel Presidente Sergio Mattarella, che a gennaio 2018 aveva voluto partecipare alle celebrazioni del 50° anniversario del Terremoto della Valle del Belìce.
L’ennesima occasione per ricordare il sisma che la mattina del 15 gennaio 1968 sconvolse un settore della Sicilia meridionale, compreso tra le province di Palermo, Trapani e Agrigento. Più di 300 morti e interi paesi rasi al suolo. Da Gibellina a Poggioreale, da Salaparuta a Montevago. In poco meno di trenta minuti di scosse, segnata la storia di un pezzo di Sicilia. Costringendo alla precarietà i sopravvissuti che avevano scelto di rimanere.
A due anni di distanza dalla visita del Presidente della Repubblica “che ci aveva fatto sperare in una rapida e conclusiva soluzione all’annosa questione, dobbiamo rilevare con amarezza ancora una volta che senza l’intervento delle istituzioni nazionali alle istanze del territorio di cui noi amministratori siamo portavoce, non si potrà mai dare risposta certa e finale. Al ricordo quest’anno si unisce ancora e con vigore la lotta per ottenere una volta per tutte ciò che ci spetta di diritto”.
È ancora il sindaco Partanna a parlare. Ma questa volta è deluso. Si sente tradito. Cinquantadue anni non sono sufficienti a chiudere il conto. La ricostruzione continua. Non può definirsi neppure più, “con lentezza”. Sembra quasi che si sia scelto di trasformare quel che avrebbe dovuto essere (il) provvisorio, in definitivo. Grazie a molte leggi, ma anche a finanziamenti inadeguati. Si calcola che finora siano stati investiti meno di 13mila miliardi di vecchie lire. Nonostante le mobilitazioni di cittadini e amministratori. Come il sindaco di Santa Ninfa, Vito Bellafiore. Ma anche dei parroci, come don Antonio Riboldi.
Così le baracche di lamiera ed Eternit, che per almeno quarantanni hanno costituito il riparo di fortuna di molti dei quasi centomila sfollati, non ci sono più. Cancellate almeno quelle sistemazioni che Leonardo Sciascia paragonò ai “più efferati e abietti campi di concentramento”.
I paesi in molti casi sono stati costruiti altrove. Aggiungendo a territori nei quali sono rimasti i vecchi centri fantasma, nuove urbanizzazioni. Con il risultato di incidere pesantemente sul paesaggio. Ma c’è ancora molto da fare. Soprattutto le opere di urbanizzazione. Per le quali servono all’incirca 300 milioni di euro.
“Abbiamo abbiamo esposto per l’ennesima volta le tematiche più urgenti da affrontare in materia di opere di urbanizzazione primaria e di edilizia privata ricevendo rassicurazioni dal viceministro alle Infrastrutture e Trasporti Giancarlo Cancelleri, d’intesa con la titolare del dicastero Paola De Micheli, in rappresentanza delle istituzioni nazionali, sulla volontà di dare una risposta definitiva a tutte le questioni avanzate”. Il sindaco di Partanna spera sia la volta buona. Anche se la storia del Belice sembra dimostrare che sulle rassicurazioni dello Stato sia preferibile non far troppo conto. Una celebrazione dopo l’altra, il tempo trascorre.