Arriva la prima sentenza di prescrizione nella maxi inchiesta Ambiente svenduto sul disastro ambientale e sanitario generato a Taranto, secondo l’accusa, dalle emissioni velenose dell’ex Ilva. La tagliola del tempo ha impedito ai giudici della Corte di Cassazione di valutare le eventuali responsabilità penali di Roberto Primerano, l’ex consulente della procura di Taranto condannato a 1 anno di reclusione in secondo grado per aver falsificato i contenuti di una perizia sulle emissioni di diossina del siderurgico. È stata la quinta sezione della Corte di Cassazione ad annullare senza rinvio, a causa dell’eccessivo tempo trascorso dai fatti, la condanna con il rito abbreviato emessa il 30 novembre 2017 dalla Corte d’assise d’appello.
Primerano, difeso dagli avvocati Michele Laforgia e Antonio Raffo, era una delle 53 persone coinvolte nella maxi inchiesta. In primo grado, nonostante l’assoluzione dal reato di concorso in disastro ambientale e avvelenamento di sostanze alimentari, era stato condannato a 3 anni e 4 mesi di reclusione per due ipotesi di falso ideologico. Già nel processo di secondo grado la prescrizione aveva consentito la riduzione della pena a un anno di reclusione: dal primo episodio di falso, che risale al 2009, infatti, era trascorso troppo tempo per consentire la valutazione dei giudici.
La Suprema Corte, martedì mattina, ha però annullato senza rinvio quella sentenza riconoscendo l’intervenuta prescrizione anche per la seconda ipotesi di falso in relazione a una perizia redatta nel 2010 su ordine della procura per accertare se la diossina emessa dall’Ilva avesse effettivamente avvelenato acque, terre e animali. Per la procura di Taranto, Primerano in concorso con il suo “mentore” Lorenzo Liberti, docente universitario e anche lui ex consulente della procura accusato anche di aver intascato una tangente da 10mila euro per ammorbidire una perizia, avrebbe favorito i vertici di Ilva e in particolare Emilio e Fabio Riva, l’ex direttore di stabilimento Luigi Capogrosso e l’ex responsabile delle relazioni istituzionali della fabbrica Girolamo Archinà, confezionando una relazione nella quale sosteneva che la diossina ritrovata negli oltre 2mila capi di bestiame abbattuti “non era compatibile con l’attività dello stabilimento siderurgica”.
Una conclusione che, se non ci fossero state le indagini parallele dei finanzieri, avrebbe scagionato la fabbrica da ogni responsabilità. Le conclusioni di Primerano e Liberti sono state poi smentite dai consulenti nominati nel 2010 dal pm Patrizia Todisco che nelle due maxi perizie che rappresentano i pilastri delle accuse al processo hanno invece affermato che gli inquinanti ritrovati nelle carni animali sono chiaramente riconducibili all’Ilva di Taranto.
Per i giudici di secondo grado, Primerano è in “mala fede” perché a sostegno di questa tesi ci sarebbero la negazione di “un criterio predeterminato legato al fingerprint della diossina derivante dal processo di sinterizzazione”: in sostanza, Primerano avrebbe negato negato l’esistenza di una vera e propria impronta digitale della diossina che avrebbe permesso di inchiodare l’Ilva. Non solo. A renderlo colpevole, per i giudici d’appello, c’era anche il contenuto di alcune conversazioni intercettate nel corso delle indagini che dimostrerebbero non solo una “una palese collusione tra il consulente Liberti e la dirigenza dell’Ilva”, ma soprattutto la consapevolezza per Primerano di “assecondare i desiderata del cattedratico e dei vertici della società”. Accuse che, tuttavia, non saranno mai valutate nel merito perché i quasi dieci anni di tempo trascorsi dal momento in cui sarebbe stato compiuto il reato, hanno fatto scattare la prescrizione.