La Procura di Taranto ha chiesto di non procedere per tre fascicoli di indagine aperti negli anni scorsi (per disastro ambientale, inquinamento dell'acqua e dell'aria) perché era in vigore la protezione voluta dal Governo Renzi. Una misura per cui il giudice Benedetto Ruberto a febbraio 2019 aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale. La Corte, però, ha restituito gli atti perché nel frattempo era stato modificato il testo dell'immunità
“I reati commessi dai dirigenti Ilva tra il 2014 e il 2018 vanno archiviati perché coperti dall’immunità penale”. È quanto ha sostanzialmente ribadito la procura di Taranto che questa mattina ha chiesto l’archiviazione di tre fascicoli di indagine aperti negli anni scorsi quando era ancora in vigore lo scudo penale introdotto dal Governo di Matteo Renzi. Una storia giudiziaria particolarmente e inevitabilmente destinata a scatenare nuove polemiche sul salvacondotto inizialmente dato ai commissari straordinari e poi esteso anche ad Arcelor Mittal che dal 2018 gestisce la fabbrica di Taranto. La nuova richiesta di archiviazione della procura è giunta dopo che la Corte Costituzionale ha restituito gli atti al giudice Benedetto Ruberto che a febbraio 2019 aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale sull’immunità penale e sui diversi decreti “Salva Ilva”, ritenendo che violassero ben sette articoli della Costituzione e concedessero un tempo troppo lungo (11 anni) per il risanamento degli impianti sequestrati nel 2012.
Il giudice Ruberto aveva deciso di rivolgersi ai “giudici delle leggi” dopo che la procura ionica aveva chiesto l’archiviazione dei fascicoli perché “coperti” dallo scudo penale. La Consulta, però, non ha mai emesso una sentenza per stabilire se quei provvedimenti rispettassero o meno la carta costituzionale: dopo l’istanza del giudice, infatti, la norma era stata cancellata dal Governo Lega-Movimento 5stelle con il decreto legge “Crescita” e poi reintrodotta (con significative modifiche) qualche mese più tardi con il decreto legge “Imprese”. Quei cambiamenti al testo, però, aveva impedito alla Corte costituzionale di valutare l’istanza del giudice Ruberto poiché i rilievi mossi dal magistrato tarantino facevano riferimento a un testo ormai non più in vigore. Gli atti sono quindi stati inviati nuovamente a Taranto per proseguire il procedimento e nella nuova udienza i pubblici ministeri hanno chiesto nuovamente di archiviare le accuse.
Sono tre i fascicoli d’indagine sull’ex Ilva che rischiano di essere bloccati dall’immunità concessa ai vertici della fabbrica. Nel primo procedimento si contestava inizialmente il reato di disastro ambientale per i dati allarmanti degli inquinanti rilevati tra novembre 2014 e febbraio 2015: erano stati i carabinieri del Noe di Lecce e Arpa Puglia a chiarire che i valori di diossine e furani, sostanze cancerogene, erano “pericolosamente superiori ai limiti”. A questi documenti si erano poi aggiunti anche segnalazioni inviate dal comitato “Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti” e di Angelo Bonelli, membro dell’esecutivo nazionale della Federazione dei Verdi. Le indagini affidate alla Guardia di finanza avevano portato all’iscrizione nel registro degli indagati di Ruggiero Cola e Nicola Petronelli, all’epoca dei fatti rispettivamente direttore dello stabilimento e capo dell’area agglomerato. Il secondo invece, aperto contro ignoti, era stato avviato quando il Comune di Statte, piccolo centro a pochi chilometri da Taranto, aveva segnalato che nella discarica interna dello stabilimento “Mater Gratiae” erano in corso “attività estrattive su aree inquinate” con “rilevanti dispersioni di polveri contenenti microinquinanti depositatisi su suolo, a danno di operai, della collettività, soprattutto dei cittadini residenti a poche centinaia di metri dal sito”. In quella denuncia, inoltre, l’ente aveva aggiunto che la falda acquifera era “conclatamente inquinata dalle sostanze lasciate dal dilavamento dei terreni di riporto”.
Il terzo fascicolo, infine, era nato dopo che Arpa Puglia aveva prodotto un report dell’anno 2016 sul monitoraggio della qualità dell’aria nei pressi dello stabilimento: da quell’analisi emergeva che i livelli di polveri sottili (pm10 e di pm2,5) e inquinanti come il “benzene” erano sempre superiori ai limiti in alcune aree della fabbrica. Non solo. I dispositivi avevano registrato un valore medio annuale molto alto nel quartiere Tamburi del “Black Carbon” sostanza che si forma in seguito a una combustione incompleta di fossili e biomassa e che viene emesso da sorgenti naturali e artificiali sotto forma di fuliggine. Un valore che, secondo gli esperti dell’agenzia regionale pugliese era più alto persino di quello rilevato all’interno dell’Ilva. La procura è stata costretta a chiedere l’archiviazione e ora dovrà essere il gip Ruberto a valutare la richiesta.