Con la serialità televisiva ai suoi picchi storici, le produzioni di punta dei network più importanti si danno battaglia a colpi di perfezione formale: i migliori sceneggiatori, i migliori registi, i migliori attori e le storie più originali contribuiscono a formare un mosaico di narrazioni visive che sintetizza al meglio paure, aspettative e tensioni recondite del nostro tempo e delle capitali dello spirito occidentale: dalla Londra di Fleabag alla New York di Russian Doll, dalla Los Angeles di Nicolas Refn ed Ed Brubaker alla Roma di Paolo Sorrentino e dei suoi Papi.
In un periodo di tanta prolificità del medium non è escluso che si sviluppino anche capitali minori, sottocapitali dello spirito, frutto di ispirazioni altrettanto genuine ma rappresentate con mezzi più umili, almeno a livello di macchina produttiva.
Le scovi su YouTube o su Vimeo: non hanno dietro né Netflix né Hbo, e hanno assai meno tempo per convincerti della loro bontà. Non hanno nessun battage pubblicitario e nessun nome altisonante con cui fare cartello. In tutta onestà, non tutte hanno i numeri per tenerti incollato fino all’ultimo episodio. Ma ogni tanto si scopre qualche chicca che, al netto della produzione casereccia, offre spunti interessanti.
Tra queste c’è Il Coinquilino di Gian Luca Catalfamo: una web serie ambientata tra i quartieri romani del Pigneto e del Tuscolano, in cui l’intero quadrante Sud-Est di Roma diventa lo spin-off surreale di un ceto medio ben oltre l’orlo della psicosi. È composta da dieci episodi della durata di un quarto d’ora circa a testa e si trova tutta sul tubo. Ve la si propone in questa sede, come ve ne si proporranno altre in futuro, perché a Game of Thrones siamo tutti perfettamente in grado di arrivarci da soli.
Werther (Vito Manfreda) e Fabrizio (Ludovico Terra) sono due precari con aspirazioni artistiche, ma soprattutto due irregolari che subaffittano il loro appartamento, adattandosi a convivere con un estraneo pur di alleggerire l’affitto. Un giorno trovano il loro ultimo misterioso coinquilino morto sul tavolo della cucina. I loro tentativi di occultare il cadavere per evitare di essere buttati fuori di casa li trascineranno in un turbinio surreale di audizioni di nuovi inquilini e soprattutto di incontri criminali, in cui la distanza tra parossismo e delirio si farà sempre più sottile finché non verrà svelato cosa – e soprattutto chi – ha ucciso Mario (questo il nome della vittima).
Quella de Il Coinquilino (scritto da Catalfamo insieme a Manfreda e a Veronica Mignanelli) è una capitale ben lontana dagli echi vaticani e patinati in cui tengono virtuosamente banco il talento di Jude Law e John Malkovich. Per certi versi, i suoi interno giorno e interno notte in bianco e nero potrebbero ricordare quelli dei dirimpettai The Pills, ma solo a un occhio distratto: quell’autoindulgenza generazionale scanzonata non trova spazio in questo festival del senso di colpa.
Tra locali notturni da incubo e lungomari desolati, vengono raffigurati gli isterismi di un ceto medio minore, ma solo in quanto precario, e non per questo meno attaccato ai propri privilegi: relazioni garantite, anche se anaffettive e tossiche; un tetto sostenibile sopra la testa; la conservazione a tutti i costi della propria aspirazione artistica, anche in luogo di risultati deprimenti. Sono tutti benefit precari, ma pur sempre benefit, e l’ansia di perderli trasforma metaforicamente individui comuni in occultatori di cadaveri, trafficanti di droga, sciacalli.
Più a suo agio in un’ambientazione da Fuori Orario di Martin Scorsese che da Clerks di Kevin Smith, e squisitamente debitrice di atmosfere che sembrano evaporare da un fumetto di Andrea Pazienza o di Stefano Tamburini, la discesa agli inferi di Werther e Fabrizio non inizia con la dipartita di Mario ma molto prima, come illustrato dai ciclici flashback della narrazione. La serie ha il pregio di voler raccontare la storia di un tessuto suburbano che fa della condivisione degli spazi una delle sue bandiere, ma che spesso si trova a vivere questa condizione per necessità o per evitare di affrontare alcuni aspetti più in ombra di sé.
Da questo punto di vista, è come se Il Coinquilino volesse decostruire l’ondata di sketch e web series a sfondo romano degli ultimi anni, in quanto i luoghi e il gergo sono gli stessi. Ma stavolta non ci sono indulgenza o redenzione da offrire al tessuto sociale e generazionale che l’hanno ispirata e prodotta. Se vi dovesse capitare, fateci caso: ogni volta che qualcuno dei protagonisti guarda in camera, all’interno di un sanitario o di un borsone, guarda negli occhi lo spettatore con orrore.