La recente sentenza della Corte d’Appello di Torino – che ha riconosciuto il nesso causale fra insorgenza di un raro tumore del nervo acustico (neurinoma) in un lavoratore esposto a telefono cellulare e l’uso per un tempo stimato di 12.600 ore nel corso di 15 anni – rappresenta una pietra miliare nella tormentata questione sulla pericolosità dei telefonini.
Già la sentenza di primo grado aveva riconosciuto come malattia professionale la patologia in oggetto e questa ulteriore sentenza, che conferma quella di primo grado e rigetta il ricorso in appello avanzato dall’Inail, rende indubbiamente giustizia di tante reiterate prese di posizioni negazioniste sull’argomento.
La sentenza merita di essere letta per intero, in quanto è esemplare sia per la coerenza delle argomentazioni che per la testimonianza dell’accuratissimo lavoro fatto dai Consulenti Tecnici d’Ufficio (Ctu). La prima impressione che ho avuto nel leggerla è stata da un lato di sincera gratitudine verso i magistrati che l’hanno emessa, ma dall’altro ho provato anche un senso di profondo scoramento nel dover constatare che il bene primario della salute è di fatto, ancora una volta, demandato alla magistratura, in quanto le istituzioni a ciò preposte si rivelano, come in questo caso, pesantemente carenti.
Al punto 8 della Sentenza di Torino, ad esempio, vengono riportate le argomentazioni dei Ctu in risposta ai consulenti di parte dell’Inail che citavano, a loro supporto, il Rapporto Istisan dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss) sul quale già mi ero espressa, riportando al riguardo la posizione dell’Isde. Vedere che proprio le critiche al Rapporto Istisan – a firma del Presidente del Comitato Scientifico dell’Isde, dott. Agostino Di Ciaula – vengono riportate dai magistrati torinesi è un indubbio riconoscimento della serietà della nostra associazione e del nostro impegno a difesa della salute pubblica.
Nello specifico viene citata la critica mossa agli autori del Rapporto Istisan, per avere considerato su 7 metanalisi – di cui 4 evidenziano rischi e 3 no – solo queste ultime, pur se viziate da pesanti errori metodologici, quali ad esempio avere considerato esposizioni molto limitate (2 anni e 8 mesi). E’ ovvio che un breve periodo di neanche tre anni è del tutto insufficiente per vedere svilupparsi un tumore, patologia che richiede – come emerge dagli studi adeguatamente condotti – esposizioni superiori a 10 anni o a 1.640 ore d’uso del cellulare. Come si può disconoscere l’esistenza di un rischio basandosi su periodi di osservazione troppo brevi affinché la malattia si sviluppi?
E anche se è vero che i cellulari di prima generazione avevano maggiori emissioni, è altrettanto vero che l’utilizzo del cellulare avviene in età sempre più precoce, si protrae per tutta la vita e coinvolge attualmente miliardi di persone. Oltre i neurinomi, tuttavia, ulteriore e ancor più grande preoccupazione desta il rischio di insorgenza a livello cerebrale di gliomi, tumori molto più aggressivi e maligni.
Le statistiche ci dicono che dal 1990 al 2016 i tumori del sistema nervoso centrale a livello globale sono cresciuti del 17% e in Italia, nello stesso periodo del 39%, passando da 5777 casi nel 1990 a 10.767 casi nel 2016. Tra questi i più frequenti sono i gliomi che sono anche quelli più correlati in modo causale ai cellulari: in una ampia metanalisi del 2017 che ha preso in esame 11 studi per complessivi 6.028 casi e 11.488 controlli sani, l’esposizione a cellulare per oltre 10 anni ha comportato un incremento (non attribuibile al caso) del rischio di gliomi del 44%.
Attualmente questi dispositivi sono alla ribalta anche per lo scandalo Phone Gate, portato alla luce dal medico francese Marc Arazi, che ha denunciato come la maggior parte dei dispositivi cellulari oggi in commercio emetta radiazioni molto più elevate di quelle dichiarate. Come è possibile che tutto questo venga di fatto ignorato dall’Iss, che pur riconoscendo l’esistenza di incertezza per l’uso prolungato del cellulare non adotta alcuna stringente raccomandazione, specie per quanto riguarda l’esposizione dei bambini il cui cranio è letteralmente “attraversato” da questo tipo di onde? Come si può non essere sconcertati dalla posizione espressa dal Rapporto dell’Iss e confermata da un suo ricercatore dopo la Sentenza di Torino?
C’è davvero da chiedersi quanti morti e malati si dovranno contare prima che finalmente si prenda sul serio l’allarme lanciato sulle radiofrequenze, come su tante altre questioni, da una parte della comunità scientifica. Lorenzo Tomatis, ricordando Giulio Antonio Maccacaro a 20 anni dalla sua morte, riportò l’espressione con cui Maccacaro definì l’epidemiologo: “un inconsapevole necroforo”. Certo una definizione non lusinghiera per chi è preposto alla difesa della salute pubblica!
Ancora una volta, tuttavia, la parte della comunità scientifica che solleva dubbi, venendo spesso tacciata di “antiscientificità”, è quella che non presenta conflitti di interesse e anche a questo proposito la Sentenza di Torino è esemplare. Sempre Lorenzo Tomatis nella Postfazione per la seconda edizione del suo libro Il Laboratorio, scritta nel 1993 e intitolata “Trent’anni dopo”, scriveva: “con Il Laboratorio siamo entrati in un periodo caratterizzato dalla tendenza verso il prevalere assoluto di una Big Science sempre più centralizzata, sempre più al servizio di interessi accentrati nelle mani di chi tiene i cordoni della borsa. Gli orientamenti della ricerca dipendono pesantemente dai canali di finanziamento ed è chiaro che questi favoriscono i progetti che sono in sintonia con gli interessi di chi li finanzia…”.
Già negli anni ’60 quindi Lorenzo Tomatis aveva visto la pericolosissima deriva verso cui la ricerca e la comunità scientifica stavano scivolando, deriva che ai giorni nostri è purtroppo sempre più marcata. La “Scienza” viene dipinta come una entità al di sopra delle parti, oggettiva e indiscutibile, cui tutti dovrebbero inchinarsi senza farsi domande. Viceversa la scienza è, o meglio dovrebbe essere, una “palestra” in cui ricercatori e scienziati si confrontano in modo trasparente sulla base di numeri e dati validati e riproducibili, senza condizionamenti o conflitti di interesse.
Proprio l’aspetto dei conflitti di interesse – quindi dell’indipendenza della scienza – è stato magistralmente ripreso in più passaggi nella sentenza di Torino, tanto che ritengo che questo coraggioso monito abbia un rilievo ancora maggiore rispetto allo stesso contenuto del pronunciamento dei giudici. Nella sentenza si afferma infatti che le posizioni negazioniste sono viziate da conflitti di interesse e che, per tale motivo, non devono essere tenute nella medesima considerazione di quelle che scaturiscono da ricercatori indipendenti, arrivando a scrivere, per quanto attiene la valutazione dei risultati “che debba essere dato maggior peso ai risultati condotti da ricercatori esenti da tali conflitti, come ad esempio da Hardell e suoi collaboratori” o ancora: “gli unici studiosi che con certezza escludono qualsiasi nesso causale tra utilizzo di cellulari e tumori encefalici sono i proff. Ahlbom e Repacholi, ma detti autori si trovano in posizione di conflitto di interessi, essendo il primo consulente di gestori di telefonia cellulare e il secondo di industrie elettriche”.
In questi tempi in cui nel nostro paese il clima per chi dissente dalle posizioni che vanno per la maggiore e l’aria che si respira (non solo in senso concreto) sono parecchio “pesanti”, questa coraggiosa sentenza di Torino è una boccata di ossigeno che mi fa dire che forse c’è ancora speranza.