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Come una raccolta fondi benefica mi ha fatto riflettere sull’Italia e le sue finanze

Da Padova arriva una bella notizia con un retrogusto amaro. La catena di Supermercati Alì annuncia, con legittima soddisfazione, l’esito di una raccolta fondi avvenuta nel periodo delle festività. I clienti del noto gruppo alimentare hanno contribuito alla raccolta di 116.000 euro acquistando addobbi natalizi al prezzo simbolico di un euro. Il ricavato servirà a finanziare un contratto annuale full time di un medico neurologo presso la Neurologia Pediatrica dell’Azienda Ospedaliera di Padova.

La vicenda parrebbe bella, sotto tutti gli aspetti. Quando l’atmosfera delle “feste” si traduce in gesti concreti, per quanto minimi, ci si accorge di come il poco di tanti possa davvero fare molto. Ed è tutta manna dal cielo per un comparto, come quello sanitario pubblico, da anni in drammatica sofferenza per penuria di investimenti e cronica insufficienza di risorse. Eppure, tributato ai protagonisti della vicenda l’elogio che meritano, resta un po’ di aceto nella tazzina di questa zuccherata, e tonificante, “tisana” natalizia. Lo stesso sapore accompagna tutte le altre iniziative consimili, dalle questue con sms in occasione di calamità naturali alle gare di liberalità per i terremotati.

Certo, il grande successo di queste “collette collettive” testimonia di una società in cui i valori della compassione e dell’attenzione al prossimo non sono affatto morti, come da taluni paventato. E ce ne rallegriamo. Ma documenta anche il fallimento di un tipo di organizzazione sociale in cui lo Stato ha abdicato al compito che, per ruolo, gli spetterebbe: quello, appunto, di intervenire “mettendo i soldi” soprattutto quando e laddove i soldi servono con la massima urgenza.

Per contro, è ammirevole solo la velocità con cui le più grosse realtà aziendali sanno chiedere ai (e ottenere dai) propri consumatori finali il denaro della buona volontà: direttamente proporzionale alla lentezza e alla inefficienza con cui lo Stato mette in moto la macchina degli stanziamenti pubblici. Ciò vale tanto per le catastrofi episodiche, quanto per le carenze di sistema come quelle affliggenti, per esempio, la sanità. Il problema, ovviamente, non è il medico neurologo, con contratto annuale, regalato da un supermercato all’ospedale di Padova. Il problema è che lo Stato non ha i fondi per garantire l’assistenza sanitaria (pediatrica e non) ai suoi cittadini secondo il format pubblico, universale e gratuito pensato dall’assemblea costituente e ridisegnato dalla legge istitutiva del SSN, nr. 833 del 1978.

In verità, lo Stato non ha i soldi necessari neppure per le infrastrutture, per l’istruzione, per le pensioni, per la ricerca. E ciò, nonostante una pressione fiscale fuori controllo, un attivo di bilancio ininterrotto da quasi trent’anni e l’ossessione calvinista per la spending review. Il motivo principale è l’adesione a un modello in cui la Repubblica italiana ha rinunciato alla governance delle proprie finanze, e in particolare alla possibilità di fare politica monetaria (ceduta in toto alla Ue, giusta l’articolo 3 del Trattato di Lisbona). Il “quarto potere”, quello della disciplina del credito e della moneta, è di gran lunga il più importante per uno Stato con ambizioni di reale governo del proprio territorio e di effettiva tutela dei diritti della propria cittadinanza. Più importante, persino, dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario.

Noi quel potere lo abbiamo rottamato, a dispetto di due articoli essenziali della nostra carta fondamentale: il 47, secondo cui la Repubblica “disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito” e il 117, secondo cui la potestà esclusiva, in materia di moneta, spetta allo Stato. Per la precisione, ne abbiamo appaltato le funzioni, come noto, a un ente sovranazionale, privato e insindacabile (la Bce) al quale è tassativamente vietato concedere facilitazioni creditizie “alle amministrazioni statali, agli enti regionali, locali o altri enti pubblici e ad altri organismi di diritto pubblico” (articolo 123 del TFUE).

Siamo così approdati in questo paradiso dell’egoismo istituzionalizzato dove una funzione cruciale (la spesa pubblica) per il retto funzionamento di qualsiasi ordinamento democratico, è impedita per legge. Persino a quell’ente (lo Stato sovrano) il quale, per natura, dovrebbe esercitarla in modo monopolistico e discrezionale. Nello stesso tempo, e non a caso, si moltiplicano le campagne di solidarietà con le quali si invitano i cittadini a versare l’obolo a buon pro dei poveri o a supplenza alle carenze assistenziali pubbliche. Una sorta di “welfare del buon cuore” in cui, come in un romanzo di Dickens, la solidarietà sociale non è una prerogativa doverosa e prioritaria dei pubblici poteri, ma un optional condizionato dall’altruismo (eventuale) di piccoli “donatori anonimi”. Se potessero vederlo – questo mondo “riformato” – i nostri Padri costituenti si rivolterebbero nella tomba. Noi, invece, abbiamo smarrito persino la capacità e la voglia di “rivoltarci” da vivi.

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