di Vera Cuzzocrea*

Ha suscitato interesse, in questi giorni, la notizia relativa alla presentazione che una scuola della Capitale forniva di sé sul proprio sito web. Una descrizione che, andando ben oltre la mera descrizione del contesto territoriale in cui era collocata, sfociava in una spiacevole categorizzazione sociale dei diversi plessi, frequentati in un caso da studenti “esclusivamente di ceto medio-alto e figli dell’alta borghesia”, dall’altro “di estrazione sociale medio-bassa” e“con cittadinanza non italiana”.

Il problema a oggi parrebbe risolto: il testo incriminato sarebbe stato corretto e alcune voci dal campo avrebbero ribadito un impegno interno orientato in realtà in direzione opposta, ovvero in favore dell’inclusione e dell’integrazione. Resta il dubbio (e occasione per riflettere) che la suddivisione organizzativa e logistica per classi sociali di appartenenza (e non solo) possa essere un principio che orienta e condiziona la formazione dei gruppi classe e, di conseguenza, la crescita psicologica e culturale della nostra società.

Al di là del caso specifico, pur senza essere esplicitata pubblicamente (malgrado tutti ne siano comunque a conoscenza!), diverse sono le esperienze “informali” riscontrabili da ciascuno di noi, soprattutto se genitore, circa la visione di diverse scuole di ogni ordine e grado il cui impegno sembrerebbe volto all’acquisizione di saperi performanti, magari anche in ambienti “soddisfacenti” su un piano socio-culturale, più che a uno “star bene condiviso”.

Eppure la scuola ha e deve avere il compito di supportare la crescita armonica della persona in età evolutiva, con un’attenzione costante e circolare a tutte e tre le dimensioni del sapere, del saper fare e del saper essere, fornendo quindi attraverso la didattica, ma anche altri strumenti e spazi strategici dedicati, strumenti conoscitivi insieme ad abilità personali e socio-relazionali.

Non può, cioè, servire solo per trasmettere contenuti o rischiare di amplificare stereotipie culturali e sociali, ma dovrebbe soprattutto essere un contenitore che promuove riflessione critica, crescita responsabile e un saper stare bene insieme, da attori sociali quali siamo.

Come ci ricorda Albert Bandura (1996, p. 34), una buona scolarizzazione facilita la crescita psicosociale che, a sua volta, contribuisce alla qualità della vita anche al di là dell’ambito professionale. Uno degli obiettivi principali dell’educazione formale dovrebbe quindi essere quello di fornire agli studenti i mezzi intellettuali, le convinzioni di efficacia e la motivazione intrinseca necessari per educare se stessi lungo tutto l’arco della propria vita. Tali risorse personali mettono le persone in grado di acquisire nuove conoscenze e di coltivare abilità sia per il proprio interesse personale che per migliorare la qualità della propria vita.

Da psicologi sappiamo bene che il ruolo dell’istituzione scolastica, come della famiglia, è quello di “accompagnare alla crescita” promuovendo condotte pro-sociali e l’acquisizione della capacità di guardare alle diversità con curiosa disponibilità, vicinanza emotiva e apertura mentale. Nel rispetto dei principi di uguaglianza di opportunità educative, come sancito dalla nostra Costituzione, ogni persona, fin dalla scuola dell’infanzia, deve infatti essere messa in grado di sviluppare le proprie attitudini personali nel pieno riconoscimento della medesima dignità sociale di tutti, senza distinzione di genere, razza, lingua, religione, condizioni sociali e personali.

La stessa nozione di inclusione è direttamente collegata alla capacità di coinvolgimento di tutti e tutte, nell’ottica non solo di accogliere le diverse individualità ma anche di utilizzarle costruendo ponti e spazi di incontro e conoscenza, non altre barriere.

Pensiamo ad esempio alle potenzialità educative legate all’incontro tra percorsi e traiettorie evolutive differenti per abilità, storie di vita, bisogni speciali, livelli socio-economici e culture di appartenenza. Tali diversità rappresentano delle risorse se valorizzate e utilizzate in un’ottica inclusiva, come sollecitato dalla nostra normativa e come promosso nella maggioranza degli istituti scolastici a livello nazionale attraverso esperienze condivise e buone prassi virtuose.

E questo non andrebbe tanto raccontato, ma sperimentato quotidianamente, percepito emotivamente, cercato, voluto e sentito collettivamente come valore culturale, come responsabilità sociale e politica per i cittadini e le cittadine di domani.

*Psicologa e psicoterapeuta

Community - Condividi gli articoli ed ottieni crediti
Articolo Precedente

Milano, la “schiscetta” divide anche nello stesso istituto: due bimbi costretti a mangiare in un’aula separata

next
Articolo Successivo

Fiumicino, maestre sotto accusa rientrano all’asilo. I genitori organizzano una manifestazione di protesta

next