Il 20 gennaio 1920 nasceva a Rimini Federico Fellini, uno dei registi più stravaganti e geniali del cinema italiano.
Nulla della sua opera appare scontato, celebrativo o ufficiale. E’ stato un sovvertitore di schemi, senza essere politicamente sovversivo: un po’ democristiano forse, un po’ più repubblicano probabilmente, comunque refrattario a schierarsi. Ha trasformato la cruda sincerità in poesia (gli adolescenti riminesi in Amarcord) senza rinunciare al comico paradosso (sempre in Amarcord restano indimenticabili i ritratti degli insegnanti e le ospitali mammelle della tabaccaia). Figure marginali di una storia che il suo talento ha inciso nella memoria.
Fellini è stato tanto l’uomo del cinema onirico – le sue visioni hanno trasportato gli spettatori in altri mondi – quanto al tempo stesso un distruttore di miti e speranze, già nelle sue prime due prove di regia Lo sceicco bianco del 1952 e i Vitelloni nel 1953. Nella prima smonta attraverso gli occhi di un’infatuata ammiratrice, la figura di un eroe dei fotoromanzi; nella seconda regia le aspirazioni di un gruppo di giovani (e non più giovani) sono incastrate nella routine del mondo di provincia dalla quale ci si salva (forse) fuggendo.
E’ in fondo il profilo felliniano di un uomo che va a cercare fortuna nella capitale, per liberarsi da vincoli e pregiudizi, senza però dimenticare le sue radici e anzi capitalizzando il suo immaginifico riminese sull’ampio palcoscenico della metropoli.
Il suo linguaggio e l’occasione delle grandi produzioni sono diventati un metro di riferimento internazionale con un apprezzamento di cui sono indicative le 12 nomination al Premio Oscar e l’Oscar alla carriera nel 1993.
La realtà alla quale il regista è tendenzialmente allergico, nelle sue opere diventa il limite per andare oltre, per raccontare qualcosa che è dentro di noi e che spesso non vediamo. La fantasia si àncora alla realtà restituendone i tratti alle nostre quotidianità. Altrettanto incancellabile in Amarcord, la scena del vecchietto inghiottito in un gorgo di nebbia che parla da solo in una dimensione quasi ultraterrena.
Il mistero era un’altra delle sue grandi fascinazioni che lo inclinavano in un inestricabile guazzabuglio di misticismo, con proiezione religiosa, e di materialità (le sottane delle suore). Ci ha regalato anche una delle più icastiche definizioni di italianità: “essere approssimativi con cura compiaciuta”. Lui che l’Italia non l’ha mai voluta lasciare – nonostante le sirene americane – l’Italia l’ha portata all’estero fissando i nostri luoghi in icone indelebili, come la fontana di Trevi nella Dolce vita nella quale si immerge la biondissima valchiria svedese Anita Ekberg. Fellini ha fotografato e immortalato un modo di vivere, quella Dolce vita del 1960 nella quale l’Italia, finalmente, si dimenticava degli orrori bellici, magari sprofondando in un’eccessiva spensieratezza da paese dei balocchi, senza avvedersi delle possibili occasioni di redenzione (ed è eloquente a questo proposito, proprio il finale della Dolce vita).
Nonostante il Maestro fosse allergico alla realtà, dalla sua sceneggiatura escono due capolavori del cinema neorealista come Roma città aperta e Paisà. Le riviviscenze dell’oppressivo regime fascista (l’olio di ricino inflitto all’oppositore in Amarcord) impattano sulle trasognate fantasticherie al passaggio del Rex e della Gradisca.
Con il passare del tempo l’arte è destinata ad accostarsi, relegata alle nuove esigenze: i sogni felliniani sono giudicati troppo costosi per i produttori lasciando spesso inattivo il regista nei suoi ultimi quindici anni di vita, dove però non ha mancato di regalarci lo struggente e crepuscolare Ginger e Fred (1986) storia dell’esibizione televisiva di due ballerini invecchiati, usati, non più per il loro talento, ma per l’emozione di un’istante che la pubblicità subito interrompe. Il cavalier Fulvio Lombardoni (proiezione di Silvio Berlusconi) stava imponendo il suo gusto estetico e i sogni non sarebbero più diventati realtà.