In un’intervista rilasciata al Time nel luglio 2018, il principe della Corona dell’Arabia Saudita, Mohamed bin Salman, aveva promesso di “ridurre al minimo”, entro un anno o poco più, l’uso della pena di morte.
Detto, fatto. Come tante delle sue promesse di riforma, le parole di bin Salman vanno lette al contrario.
Secondo l’organizzazione non governativa britannica Reprieve, nel 2019 in Arabia Saudita sono state messe a morte 184 persone, 35 in più rispetto al 2018: 82 per traffico di droga, 57 per omicidio e il resto per ulteriori reati.
Quasi la metà dei prigionieri messi a morte, 90, erano cittadini stranieri. In un solo giorno, il 23 aprile, sono state eseguite 37 condanne alla pena capitale.
Il 2020 non sembra essere iniziato molto diversamente, con almeno quattro esecuzioni nelle prime due settimane.
Nei loro rapporti sulla pena di morte nel mondo, le organizzazioni per i diritti umani segnalano costantemente come i processi per reati capitali in Arabia Saudita si basino su “confessioni” estorte con la tortura e limitino il diritto alla difesa.
Il numero delle persone in attesa di esecuzione non è noto. Tra loro ci sono sicuramente Ali al-Nimr, Abdullah al-Zaher e Dawood al-Marhoon, condannati a morte da minorenni per aver preso parte alle proteste della “primavera” saudita del 2011.