Quando devono spiegare come stanno, i cittadini di Bibbiano usano quasi tutti la parola “dolore”. Poi arriva “solitudine”. E a volte “rabbia”. Anzi prima, se davanti hanno un giornalista, si mettono a fissarlo in silenzio e aspettano un segno per capire se possono fidarsi. Di solito decidono di tacere. “Stiamo male, siamo stati molto male”. Renzo ha 79 anni, è un artigiano in pensione, nato contadino e diventato operaio. Uno di quelli che ha visto “l’ultima guerra, quando cadevano le bombe su Sant’Ilario”, a pochi chilometri da qui. Renzo arriva davanti al teatro sociale Metropolis per primo: manca un’ora all’inizio dell’assemblea con le sardine e cammina da solo davanti all’ingresso. “Siamo stati maltrattati. Questo è un paese solidale di persone oneste. I giornali e i politici hanno emesso sentenze definitive di fatti ancora da accertare”. Sono sei mesi che questa comunità si è chiusa in un lungo silenzio stampa: l’inchiesta che ha travolto i servizi sociali della Val d’Enza su presunti affidi illeciti ha trasformato Bibbiano in un “paese di orchi” e la sua gente – da queste parti funziona così – si è messa a testa bassa in silenzio ad aspettare che passasse la tempesta. Ma in un paese di 10mila anime scarse nel cuore dell’Emilia, se soffre uno, soffrono tutti. E soprattutto, sempre da queste parti, se soffre uno gli altri fanno in modo innanzitutto di proteggerlo. Anche per questo Renzo non riesce a darsi pace: “Mi sarei aspettato una parola in più dal Partito democratico e da Nicola Zingaretti. Hanno avuto paura di esporsi, lo capisco. Ma noi siamo rimasti qui a spiegare agli amici e conoscenti che essere di Bibbiano non è un insulto”. Lo rivoteranno tutti il presidente Stefano Bonaccini, almeno così garantisce Renzo. Però, gli scappa una frase in più: “Per fortuna sono venuti questi ragazzi a darci una mano. Dimostriamo che la politica si può fare senza insultare”.
Passano pochi minuti e il piazzale si riempie: gli organizzatori si aspettavano al massimo un centinaio di persone, ne arrivano più di 500 e c’è da attrezzare una sala più grande. Fuori si raduna una folla: ci sono gli universitari, le famiglie e i nonni. Spunta qualcuno dal giro dell’oratorio e pure una o due facce della compagnia del bar. Mattia Santori, il leader che ormai tutti conoscono, entra per ultimo facendosi largo tra una massa di persone che si è stretta una appiccicata all’altra per riuscire a entrare nella sala. Nessuno si muoverà per due ore. Lui che negli occhi ha ancora i 40mila di domenica in piazza a Bologna, dice che “un’emozione così“, come quella di guardare il teatro di Bibbiano pieno, “in due mesi non l’aveva mai provata”. A parlare per lui è la tensione e la paura di fare un passo falso proprio quando mancano pochi giorni alla fine della campagna elettorale. “Siamo già pronti vero al fatto che ci saranno contestatori?”, è l’esordio di Santori. E invece, sorpresa: non succede. Le sardine hanno deciso di chiedere alla comunità cosa ne pensa di andare in piazza in contemporanea con la Lega il 23 gennaio, se davvero insistere nonostante gli avvertimenti del questore, e fino all’ultimo hanno paura di trovarsi con una rivolta pubblica in diretta tv. Niente di tutto questo. Le paure di questi mesi, le “vergogne” e i silenzi, si sciolgono nel giro di pochi minuti: sul palco i giovani, “i ragazzi” che parlano semplice e chiedono di rispondere a domande concrete (Dicono “Regaz, andiamo in piazza, sì o no? Portiamo da mangiare, sì o no? Suoniamo musica, sì o no?”); tra il pubblico, quelli che potrebbero essere loro nonni o genitori che li applaudono sollevati. “Era facile no?”, commenta una ragazza in prima fila. “Bastava venirci ad ascoltare”. Allora le due sardine di Reggio Emilia, Giulia Sarcone e Youness Warhou aprono il microfono al pubblico. Prende la parola una mamma che si presenta proprio solo così: “Sono una mamma”. E continua: “Noi non ne possiamo più”. Le trema la voce e sembra che da un momento all’altro tutti possano mettersi a piangere. “Dal più giovane al più vecchio, non ce la facciamo più”. I ragazzi fanno partire l’applauso e si va avanti. Un signore a cui scappa il dialetto tra una parola e l’altra, grida nel microfono: “Non si può usare il male e il dolore del paese per fare politica. Dobbiamo reagire”. Santori li fissa con le guance rosse: ha paura di non riuscire a contenere tutto. “Vi propongo di pensare al futuro, facciamo proposte”, dice e prova a intervallare gli sfoghi.
Per le sardine di Bibbiano parla Giulia Casamatti che ha 28 anni e si è appena laureata in Medicina: “Vi abbiamo chiamato noi”, dice. “Volevamo dare una risposta dopo mesi di silenzio e farlo nel vostro modo, antifascista, educato e gentile. Quindi grazie. Soprattutto per essere venuti a chiedere la nostra opinione prima di presentarvi in piazza”. La “rabbia” di tutti è quella di essere diventati una passerella per politici che prima di qualche mese fa “neppure sapevano dove fosse Bibbiano”. “Gente come Matteo Salvini”, dice l’amico subito a fianco di Giulia, studente di 21 anni che parlerà giovedì dal palco e per ora preferisce non dare il suo nome in “pasto alla rete”, “è venuta qui a sfidare un paese in ginocchio. Pochi giorni fa Giorgia Meloni si è fatta accompagnare per fare un video sotto il cartello stradale di Bibbiano. Fino a quando dovremo accettare queste cose? Avremmo voluto maggiore appoggio dal Pd. Che prendesse una posizione definitiva. Hanno lasciato uno spazio vuoto e le destre come avvoltoi vi ci sono fiondate”. Anche se Bonaccini alla fine lo giustificano tutti: “Ha dovuto annullare il suo comizio qui per paura di essere strumentalizzato. Lo abbiamo capito”.
L’assemblea dopo due ore sembra finita. Si è deciso di preparare un’orchestra “ittica”, di portare strumenti di qualsiasi tipo e di prepararsi a suonare. Del resto Bibbiano, oltre che del Parmigiano Reggiano, è patria natale di fisarmonicisti e compositori (per non scomodare il parroco che benedì Iva Zanicchi). Ma quando sembra che ormai ci sia solo spazio per la festa, alza la mano una signora. Si chiama Elisabetta e si presenta “insieme a mio marito Giorgio”: “Siamo una famiglia affidataria”. La sala si mette ad applaudire, alzandosi in piedi. “Noi crediamo molto nell’affido, un’istituzione che come tutte le cose ha dei limiti. La cosa grave è che in questa situazione i primi a pagare sono i bambini. Anche quelli che avranno bisogno d’aiuto. Perché ora intorno c’è il deserto”. Da quando è scoppiata l’inchiesta infatti, è stato demolito un legame di fiducia con i servizi e le segnalazioni dei casi sono state ridotte al minimo. Lo sanno tutti in paese: gli insegnanti, le forze dell’ordine, gli amministratori. “Si è tornati indietro a quando nessuno vedeva o voleva vedere”, raccontano lontano dalle telecamere. Elisabetta parla e la sala non smette di applaudire, quasi stesse dicendo qualcosa che finora si era pensato impossibile da pronunciare ad alta voce. Non è l’unica mamma affidataria in sala. Nadia prende la parola dopo di lei: “Bibbiano è il pretesto per attaccare un modo di vivere. Bibbiano sono le case che si aprono. I servizi sociali che hanno funzionato e funzionano con tutti i difetti che ci possono essere. E’ un modo di pensare alla comunità”, dice. “C’è qualcuno che vuole imporre l’idea che la famiglia naturale è la panacea di tutti i mali. Ma prima vengono i bambini e questo può voler dire anche prevedere che non stiano con la loro mamma e il loro papà. Se c’è chi ha sbagliato, la magistratura farà il suo lavoro. Noi difendiamo il sistema, non le persone”. Ancora applausi. Le sardine sorridono guardandosi intorno: a questo punto i contestatori avrebbero dovuto già intervenire, non ce n’è traccia.
I 500 non si smuovono, prendono la parola e sembrano non aver voluto fare altro da settimane. E lo fanno con tranquillità anche e soprattutto perché non c’è nessuna etichetta politica. Da queste parti il Pd, abituato a prendere percentuali bulgare (persino alle scorse Europee del pienone leghista ha retto col 35 per cento dei voti), è di casa. Eppure il coinvolgimento del sindaco Pd Andrea Carletti nell’inchiesta ha fatto allontanare quasi tutti dai piani alti del partito: anche ora che la Cassazione ne ha annullato gli arresti e sono caduti due capi di imputazione, i dirigenti faticano ad avvicinarsi. Sono rimasti gli esponenti locali, quelli che in silenzio non hanno mai lasciato il territorio. Nessuno, dal palco, cita mai il Pd o osa attaccarlo. Non è quello il punto. Ma nella platea del teatro, tra i sedili rossi, vengono fuori le storie di chi ha resistito sul territorio. Stefano Salsi, comunicatore tra le sardine reggiane che da queste parti dà una mano da sempre, racconta della Festa dell’Unità (da un po’ ribattezzata Festival d’Enza): “E’ partita pochi giorni dopo le paginate dei giornali sull’inchiesta. I 400 volontari sono rimasti, schissi come si dice da noi (schiacciati, ndr) e in silenzio rispettosi di quello che stava succedendo. Ma sono rimasti. E le presenze sono aumentate”. Da lì è passato anche Zingaretti, lo ricordano tutti, ma non è bastato per far sentire gli abitanti di Bibbiano abbastanza considerati.
Lo sa Stefano Marazzi, segretario del circolo Pd, che l’assemblea la sorveglia in disparte: “Questi mesi sono una prova molto dura”, lo dice con la voce bassa. “Da noi c’è veramente una ramificazione di relazioni che ci fa essere molto stretti. Anche nel momento del dolore”. Per tanto tempo è stato uno dei pochi referenti del partito rimasti sul territorio: “Abbiamo vissuto uno pseudo abbandono, ci siamo sentiti molto soli. E’ ovvio che quando ti viene la peste tutti ti stanno lontano. Forse il partito ha fatto fatica a capire l’importanza di questa vicenda”. Forse da altre parti questo sarebbe bastato per mollare il Pd, ma qui è in gioco molto di più dell’appartenenza politica. E infatti Marazzi continua: “Bisogna essere equilibrati però, lo dico sempre. Tanti si aspettavano prese di posizione, ma capiamo che il partito dovesse evitare strumentalizzazioni. Il rischio era che sembrasse volessero difendere il sindaco e basta”. Insomma se non tutto è perdonato, quasi. Intanto, in extremis, sono arrivate le sardine: “Ma non salvano solo noi, risvegliano le coscienze”, dice Marazzi. Santori e i suoi, che chissà se sanno di avere quella responsabilità cucita addosso, chiudono la serata con il teatro che intona Bella ciao e l’invito a manifestare. Ma anche con la prima vera, questa sì, ammissione di colpa: “Venite in piazza giovedì 23. Bibbiano se lo merita. Perché in fondo in silenzio in questi mesi ci siamo stati tutti”.