La 50ma edizione del World Economic Forum di Davos appare già dai primi titoli di giornale come la più colossale operazione di greenwashing mai partorita nell’iperuranio dei ricchi. Le nevi di Davos si tingono di verde, “Sfida per un capitalismo pulito”, “La svolta verde di Davos”, “A Davos Greta guida la crociata della nuova finanza verde”, “La grande finanza verde come Greta”…
L’espressione greenwashing si è affermata nel gergo del turbo-capitalismo anni Novanta, nei Paesi anglosassoni, quando i manager delle più grandi aziende chimiche americane, dalla Dow-DuPont alla Plastic Industry, ebbero la faccia tosta di spacciarsi addirittura come “eco-friendly” in una fiera a Washington. Fu probabilmente ripresa dalla denuncia di un ambientalista americano, Jay Westerveld, sui comparti ecologicamente disinvolti di alcune catene alberghiere.
Alla fin fine, più che l’origine esatta, conta il significato del termine: green sta per verde, come tutti ormai sanno, e l’atto del lavare connesso, washing, richiama precisamente la precedente definizione canonica di “whitewashing”, cioè imbiancatura, che nel mondo finanziario – almeno fino a quel giorno in cui i peggiori inquinatori si sono presentati come amici della natura – indicava l’azione di marketing con cui le società provano a nascondere i fatti sporchi. A tal proposito viene da richiamare anche il titolo di una coraggiosa inchiesta di Jean Ziegler sulle banche della Confederazione elvetica, “La Svizzera lava più bianco”. Adesso le nevi di Davos “lavano più verde” l’iperuranio dei ricchi della finanza mondiale.
Del resto, dopo tanti precedenti segnali, quest’idea che Davos possa segnare la svolta verde si basa su rilevazioni inequivocabili del cosiddetto “sentiment” degli operatori finanziari, raccolte alla vigilia del Forum, come ha spiegato Stefano Carrer sul Sole 24 Ore: “Per la prima volta in assoluto, gli esperti e leader interpellati nell’autorevole sondaggio (Global Risks Report 2020) hanno indicato che i cinque principali rischi globali a lungo termine (per probabilità) sono tutti di carattere ambientale: eventi meteorologici estremi, fallimento nella mitigazione e nell’adattamento ai cambiamenti climatici, grandi catastrofi naturali, grave perdita di biodiversità e collasso dell’ecosistema, danni ambientali e disastri causati dall’uomo. Quanto ai prossimi dieci anni, 4 dei 5 maggiori rischi in termini di potenziale gravità di impatto riguardano anch’essi eventi climatici (in aggiunta alle armi di distruzione di massa)”.
La contraddizione più clamorosa è nella credibilità delle cosiddette mani forti, e tutt’altro che invisibili, del Mercato, che ora vorrebbero continuare ad accrescere le ricchezze di pochi con la scusa di un inevitabile Green New Deal, insieme magari alla piccola Greta sotto la bella bandiera della Sostenibilità.
Così il problema più urgente dei movimenti ecologisti diventa proprio quello di non cadere nella trappola di un post-capitalismo mondialista che si vorrebbe auto-perpetuare con la scusa di un simbolico nuovo “crollo del Muro”, e stavolta non di cemento a Berlino, ma d’aria, nell’atmosfera, del global warming.
E, poi, a Davos 2020 sembra tutto fatto apposta per fornire argomenti forti ai neo-populisti e ai negazionisti climatici. E per offrire a Donald Trump il trampolino ideale di un rilancio d’immagine: difficile che The Donald non voglia presentarsi ancora come il solito magnate all’americana, senza ipocrisie e infingimenti. Uno che, per dirla con le parole del co-protagonista de La fonte meravigliosa di Ayn Rand, non si mischia affatto con “quel senso particolare di sacro rapimento che gli uomini affermano di provare nel contemplare la natura…”, ma che anche al tramonto sullo yacht in mare aperto ripete entusiasta: “Quando guardo l’oceano sento la grandezza dell’uomo. Penso alla meravigliosa capacità dell’essere che ha creato le navi per conquistare tutto quello spazio senza significato. Quando guardo le cime delle montagne penso ai tunnel e alla dinamite. Quando osservo le stelle, ricordo gli aeroplani”.