“Signora lo sa che si vota domenica 26 gennaio” “No e non lo voglio sapere, tanto siete tutti uguali!”, “Signora venga qui non è vero quel che dice, ma è arrabbiata?” “Certo che sono arrabbiata, come starebbe lei con un figlio di trent’anni disoccupato?”, “Comprendo e mi spiace ma non tutti hanno le stesse colpe, anche i politici non sono tutti uguali”. La signora se ne va scuotendo la testa. È dura smuovere quella parte di elettorato che da tempo non vota o vota chi sa chi; popolo senza identità, persone anziane o meno alle prese con troppe difficoltà.
Eppure qui in Emilia Romagna uno stato sociale ancora funziona: gli ambulatori, le case della salute, l’assistenza ai non autosufficienti, gli aiuti concreti (seppur forse limitati alle famiglie in difficoltà), gli asili e le scuole a tempo pieno. I Comuni fanno quel possono con le risorse sempre insufficienti, ma c’è un’ampia e articolata rete di solidarietà sociale, enorme e diffusa per quelli che stanno veramente peggio.
La povertà qui non ha le forme evidenti del mezzogiorno d’Italia; non c’è il degrado o la marginalità diffusa. Però esiste e si consuma magari tra la pareti di una casa di proprietà dove nessuno ti sfratta, ma magari fai fatica a pagare luce e gas.
La fine del lavoro ben pagato ha colpito come una mannaia famiglie che fino a pochi anni fa potevano vivere dignitosamente: la figura dell’artigiano ricco, che presta il suo lavoro qualificato come terzista o si mette in proprio, è sempre più raro vederla.
Tanti anni fa mi colpì leggere a Bologna su un cartello molto in vista in un’autofficina questa frase: “Qui la paga è sindacale e il costo della manodopera è 45mila lire ora”. Roba che dalle mie parti, a Napoli, era pura immaginazione. Ora il lavoro sottopagato, a cottimo, a chiamata, è diffuso come e più che altrove, raccontano le tante vertenze di soci dipendenti di false cooperative in subappalto che vengono pagati come facchini e lavorano da operai qualificati.
È in questa società nebulizzata e parcellizzata, in questo scenario di perdurante e strisciante crisi, di stabile incertezza (ossimoro) che, nelle periferie sociali – molte volte aggravate da un errato sviluppo edilizio, desertificate dall’abbandono dell’industria diffusa alla fine del secolo scorso -, s’ingrassa il mito dell’uomo del destino, del “lanzichenecco” nordista venuto a predicare il cambiamento.
L’Emilia rossa dei ceti medi di togliattiana memoria, il socialismo produttivo di governo in contrapposizione all’Italia forchettona e clientelare della Democrazia cristiana, ha subito una metamorfosi radicale. Oggi convivono eccellenze economiche e culturali come l’Alma Mater, università bolognese dei record d’iscritti e di riconoscimenti internazionali, e i rigurgiti di rancore di parti di società che si sentono escluse da qualsiasi ascensore sociale.
In questo quadro difficile, magmatico e contraddittorio, con un centrosinistra alla ricerca affannosa di ritrovare anima e senso, scavando nelle proprie radici per evitare una possibile sconfitta, in questo mare malmostoso e increspato, sono spuntate le Sardine con il loro trillo vitale, pesci d’acque profonde, che hanno risalito la corrente adriatica e si sono scaraventate nella battaglia elettorale con tutta la freschezza dei loro giovani anni e della voglia di dire no alla notte leghista, no alle suggestioni del capitano di ventura che vorrebbe espugnare l’ultimo baluardo della sinistra in Italia.
Riusciranno queste migliaia e migliaia di freschi pesciolini con le loro squame variopinte, con la voglia di esserci che ha riempito piazze grandi e piccole – e che sta scuotendo anche i sonnacchiosi borghi d’appennino – a fermare l’orda?
Lo sapremo il 26 gennaio. Ma comunque andrà a finire, per le forze che s’oppongono al populismo sovranista e razzista è venuta l’ora di costruire finalmente con coraggio un percorso del tutto nuovo rispetto alle usurate formule che abbiamo conosciuto finora.