Cinema

1917, mesi di prove e 65 giorni di riprese irripetibili. Il cinema diverso di Sam Mendes

La sua forma parla per il suo contenuto, al punto che “non sarebbe stato fatto se non in questo modo” ha dichiarato più volte il cineasta che, scrivendolo e dirigendolo, ha riportato in vita i ricordi del nonno combattente sul Fronte occidentale

di Anna Maria Pasetti

Potrà piacere o meno, ma 1917 di Sam Mendes in uscita il prossimo 23 gennaio offre l’occasione di assistere a un cinema diverso, non accondiscendente a quel montaggio “usa e getta” di stampo para-televisivo a cui siamo troppo abituati. La sua forma parla per il suo contenuto, al punto che “non sarebbe stato fatto se non in questo modo” ha dichiarato più volte il cineasta che, scrivendolo e dirigendolo, ha riportato in vita i ricordi del nonno combattente sul Fronte occidentale. Se all’origine c’è l’intenzione di far immergere lo spettatore nel devastante percorso dei due caporali poco più che teenager “messaggeri” di un dispaccio salvifico per 1600 loro commilitoni, in mezzo c’è la sapienza di Roger Deakins, ad oggi fra i due o tre migliori autori della fotografia cinematografica esistenti che, ça va sans dire, è il favorito alla vittoria dell’Academy Award a cui è candidato. Costui, 70enne britannico già premio Oscar per il Blade Runner 2049 di Villeneuve dopo esser stato candidato ben 13 volte, sodale del regista canadese ma anche dei fratelli Coen e dello stesso Mendes, può a ben dirsi coautore di 1917 al pari del cineasta suo connazionale.

Il film doveva essere realizzato come un “apparente” unico long-take, cioè piano-sequenza (inquadratura senza stacchi di montaggio), grazie alla giustapposizione invisibile di alcuni piani-sequenza: la necessità di unire alcune delle inquadrature poteva essere nascosta attraverso stratagemmi classici e consolidati (la storia del cinema è ricca di esempi, a partire da quel inimitabile e reale piano-sequenza Nodo alla gola di Hitchcock che ovviava la fine della pellicola cambiandola su fondi neri..o dal memorabile Arca russa di Sokurov girato invece in digitale) con l’aggravante che si tratta di un film di guerra, composto da un percorso al 99% in esterni.

La principale delle difficoltà da risolvere – dopo mesi di prove – era infatti che nessuna ripresa poteva essere ripetuta, cioè nessun doppio ciak con il diktat assoluto del “buona la prima!” perché unica. Tale metodo di lavoro, durato 65 giorni di riprese appunto in esterni, ha obbligato tutto il reparto della cinematografia (digitale) guidata da Deakins ad avere un piano di lavorazione pressoché perfetto e pianificato al millesimo in tempi, spazi, movimenti: bastava sgarrare una volta ed era finita.

Tante le prove necessarie, realizzate anche in enormi teatri di posa dove venivano contati addirittura i passi che gli attori dovevano fare (dopo accuratissimi storyboard, calcoli minimali..), e un’attrezzatura inventata ad hoc. Questa, difatti, doveva essere agile abbastanza da seguire il percorso dei caporali nella Terra di Nessuno nel nord della Francia, ma anche avanzata e accuratissima da tenere omogeneità in ogni fase, considerando che le riprese – quasi tutte – necessitavano l’ampiezza totale sull’oggetto da filmare, cioè 360° e quindi nulla poteva essere in scena. Se qualcosa poteva essere cancellato in post produzione, è chiaro che il set doveva per lo più rimanere sgombro. Deakins si è recato personalmente alla nota fabbrica tedesca di materiali video-fotografici Arri per mettere a punto una nuova versione ridotta della sua Alexa LF, chiamata appunto Alexa Mini LF 4,5K: questa è stata utilizzata sul set di 1917 (scenografato dal talento di Dennis Gassner, anch’egli candidato all’Oscar per 1917) su attrezzature variegate, usate e velocemente modificate a seconda delle esigenze: Trinity, Steadicam, StabilEye, Dragon Fly, Wirecam. Parole arabe per chi non se n’intende, certo, ma necessarie a fornire la portata tecnica (e tecnologica) di questo film in cui non si poteva sbagliare, proprio come in una battaglia.

Alcuni backstage mostrano le difficoltà qui verbalizzate: cameramen che salgono su jeep e poi saltano su carrelli, riprendono la videocamera quasi volante a mano e poi la rimontano su steady di diverse dimensioni. Senza, naturalmente, parlare della luce naturale che doveva sempre identica per continuità narrativo/scenografica essendo – ovviamente – il film girato in ordine cronologico: “Dovevamo girare sempre quando era nuvoloso. Quando c’era il sole e non potevamo girare, ne approfittavamo per fare le prove”. L’effetto di tutto questi tecnicismi, si diceva, è funzionale a una forma indissolubilmente legata al contenuto. Un contenuto non privo di emozioni (e commozioni) che lo spettatore è chiamato a provare insieme ai protagonisti: come accadeva ai soldati in guerra, anche il pubblico non può mai staccare,ma rimanere visceralmente attaccati alla tragedia mostrata oppure uscire dalla sala.

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