Non se ne parla più, ma il Mes (Meccanismo Europeo di Stabilità) è sempre lì.

Ma che cosa è il Mes? Il Mes è una organizzazione internazionale costituita con un trattato affiancato ma non incluso in quelli Ue. Il capitale su cui può contare è di 700 miliardi di euro di cui gli stati membri iniziano a versare pro quota 80 (primo contributore con il 27% la Germania, 18% l’Italia).

I prestiti concessi dal Mes – dietro richiesta da parte dello stato in difficoltà – sono soggetti a una rigida condizione: l’approvazione di un memorandum d’intesa (MoU) con il paese in difficoltà che definisce le condizioni, in termini di tagli al deficit, al debito e di riforme strutturali, alle quali il prestito viene concesso.

Il Mes prende le decisioni con la maggioranza dei voti dei paesi membri e opera in stretto coordinamento con la Commissione europea, cui spetta la negoziazione sul MoU con il paese coinvolto, con la Bce e nel caso anche con il Fmi, se viene coinvolto nel salvataggio.

Due sono le proposte di riforma. La prima, di grande importanza e urgenza vista la situazione della banche in giro per l’Europa: il Mes sarà il primo a fornire il paracadute al Fondo di risoluzione comune delle banche. Facciamo un esempio. Se una o più banche fossero in difficoltà, il Mes sarà il garante del Fondo di risoluzione comune (in corso di formazione), ma non procederà direttamente a ricapitalizzare gli istituti in difficoltà. In altre parole, il Fondo è stato pensato per accantonare, tramite contributi delle banche dei paesi membri, le risorse necessarie ad aiutare la risoluzione ordinata delle banche di interesse europeo. Il salvataggio delle banche in crisi può avvenire anche in paesi con conti pubblici in ordine, perché lasciare fallire senza aiuti banche di rilievo rischierebbe comunque di far precipitare in una crisi sistemica tutta l’Eurozona.

La seconda riforma introdotta dal trattato sul Mes è quella che ha attirato le maggiori critiche: il salvataggio di interi paesi. Particolarmente delicata è l’attivazione della procedura di ristrutturazione del debito, ovvero del coinvolgimento dei detentori dei titoli del debito pubblico che vedrebbero ridursi il valore dei loro titoli. La logica è che a rimetterci devono essere anche loro perché nel momento in cui hanno acquistato i titoli, oltre alla prospettiva di guadagno, si sono assunti anche i relativi rischi.

Gli stati dell’Eurozona saranno chiamati a intervenire solo successivamente attraverso i prestiti concessi dal Mes, di fatto più ridotti a seguito del preliminare coinvolgimento dei detentori dei titoli. Prima dell’avvio della ristrutturazione del debito si dovrà procedere a una analisi della sostenibilità del debito, fatta sia dalla Commissione che dal Mes, legata alla futura capacità del paese di ripagare lo stesso. L’affiancamento del Mes (istituzione intergovernativa) alla Commissione (istituzione sovranazionale) è uno dei punti critici della riforma, anche perché il Mes prenderà in considerazione la capacità del paese di ripagare il prestito concesso dal Mes stesso e non l’interesse dell’intera Ue, come fa invece la Commissione. È evidente che l’analisi di sostenibilità comporta ampi margini di discrezionalità e negoziazione, magari più politica che economica. Se il paese non presenta un debito sostenibile non potrà ricorrere ai prestiti del Mes.

Passata l’approvazione unanime dei capi di stato e di governo in occasione dell’ultimo Consiglio europeo del 12-13 dicembre, la parola spetta ora ai singoli stati che dovranno provvedere entro 12-18 mesi alla ratifica del Trattato, secondo le proprie norme costituzionali. Si tratta di un lungo percorso in cui è lecito esprimere posizioni critiche su singole proposte di riforma. L’importante è che non si perda di vista che il Mes rappresenta un importante esercizio di solidarietà europea, soprattutto per i paesi più indebitati, a partire proprio dall’Italia con il suo 133% di rapporto debito/Pil.

Queste considerazioni sono però più teoriche che pratiche. Se infatti lo spirito che ha guidato la creazione del Mes è sicuramente positivo e improntato alla volontà di voler uscire dalla crisi che attanaglia l’Europa da un decennio, va anche detto che per come si sono svolti i lavori e i compromessi tra gli stati membri l’accordo potrebbe ottenere effetti contrari rispetto a quelli sperati, oltre ad arrivare tardi rispetto alle crisi bancarie e degli stati.

Facciamo un esempio e supponiamo che il Mes fosse già operativo alla fine del 2011, quando l’Italia sperimentò lo spread oltre 550 punti. Siccome una delle clausole per accedere al prestito è non avere squilibri eccessivi, il Mes non avrebbe concesso nessun prestito all’Italia, ottenendo così sui mercati l’esatto contrario effetto di quello sperato.

Ma da solo il Mes può fare poco. Occorre che accanto a questo meccanismo si proceda rapidamente a un risanamento profondo delle economie che parta da un processo di armonizzazione fiscale e da meccanismi di compensazione sul fronte dello sviluppo, e non dall’ingegneria finanziaria che non sia al servizio dell’economia reale. Ciò che si chiede di fare alle banche, dopo la iper-regolamentazione degli ultimi anni, rischia infatti di avere effetti fortemente prociclici e per questa via provocare un ennesimo credit crunch che proprio il Mes vorrebbe evitare.

Ma più di tutto occorre un governo europeo dell’economia in cui spetti solo alla Ue l’emissione dei bond, magari passando attraverso la perdita di una parte di sovranità dei singoli stati membri. Ma non credo che questi siano obiettivi nell’agenda dei nostri governanti.

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