Un passo indietro necessario per restare. Un addio sotto i riflettori per vendicarsi di quelli che per lui meritano solo l’etichetta di “traditori”. La rinuncia alla leadership a poche ore da una sconfitta annunciata in ben due Regioni. Luigi Di Maio ha fatto quello che fino a pochi mesi fa sarebbe stato inimmaginabile: è salito sul palco del Tempio di Adriano a Roma e ha detto che non è più lui il capo politico del Movimento. Per i grillini, è come se fosse scoppiata una bomba nel centro della sala. Annunciata (lo aveva scritto Luca De Carolis per il Fatto Quotidiano), ma pur sempre una bomba. Lui, il leader che ha portato il M5s al governo, il vicepremier con il doppio ministero prima e il ministero degli Esteri ora, ha chiuso quella che, senza neanche troppo azzardare, potremmo chiamare la Prima Repubblica del Movimento 5 stelle. Non era una metafora quando, davanti alla platea all’improvviso così generosa con gli applausi, ha detto: “Oggi finisce un’era”. E’ proprio così: fisicamente e concettualmente. Sicuramente finisce l’epoca Di Maio: il capo politico che ha portato il M5s al governo, quello del 33 per cento alle elezioni nazionali, non ha più la forza rappresentativa per occupare la leadership. E anche se al momento non ci sono alternative, l’unica certezza, sua e di chi gli sta intorno, è che andare avanti in questo modo non era più possibile. “Si era esaurita la spinta propulsiva”, è il commento ufficioso nei corridoi. Di fatto, un passaggio necessario per “azzerare tutto” e provare a ripartire sperando che non sia troppo tardi.
Di Maio ha parlato per quasi un’ora, ricordando innanzitutto perché è lì e tutto quello che il Movimento ha ottenuto sotto la sua guida. Ha iniziato dalle origini, da quando “nessuno conosceva il nome di chi gli stava di fianco”. Ed è arrivato al governo, anzi ormai “i governi” al plurale: ha parlato delle battaglie che hanno portato avanti, dai vitalizi alle pensioni d’oro fino alla revoca della concessione ad Autostrade, e lo ha fatto rivendicando lotte “faticose” ma che si sono resi conto essere “realizzabili”. Un elenco di fatti che finora lo aveva protetto: proprio quelle conquiste hanno sempre impedito agli altri portavoce 5 stelle di dare la spallata definitiva al leader. Quell’impegno, che sempre tutti gli hanno riconosciuto e che lo ha reso “intoccabile”. Lo ha detto lui stesso: “Stare al governo richiede pianificazione e realismo”. Ovvero, un conto sono gli annunci e un altro la realpolitik. E’ una delle poche ammissioni fatte da Di Maio: quando sono arrivati nelle stanze del potere, hanno scoperto che “alcuni obiettivi non si potevano raggiungere”. Ma lui, è l’ultima parola che vuole lasciare ai suoi, ha cercato di portare avanti sempre il “miglior risultato possibile”. E per questo, “il Movimento”, ha detto, “non può essere giudicato” solo “per 20 mesi al governo”. Un chiaro riferimento al fatto che è presto per dare un voto non solo ai 5 stelle, ma anche a lui stesso e alla sua gestione.
E’ a questo punto che in tanti, ma non chi aveva lavorato con lui al discorso, si aspettavano un’autocritica. Che però non è mai arrivata, dimostrando come l’addio non fosse ben digerito. Quel mea culpa che ha fatto in privato con alcuni, lo hanno raccontato a ilfattoquotidiano.it più fonti, non è stato nemmeno sfiorato nel lungo discorso di fronte a parlamentari e giornalisti. Di Maio piuttosto ha scelto di attaccare i “traditori”, quelli che lo hanno “pugnalato” sui giornali e alle spalle senza uscire mai allo scoperto se non per abbandonare il gruppo. “I nemici inaspettati”, così li ha chiamati. Nessuna risposta insomma a tutti quei portavoce che lo hanno accusato di scarsa condivisione e hanno chiesto più democrazia interna. Neppure un accenno a chi gli ha contestato l’accentramento di poteri e ai tanti che, in buona o cattiva fede, si sono scagliati contro la scarsa trasparenza della macchina. Molti di loro non restituiscono i soldi e non rispettano le regole da loro stessi sottoscritte? Così racconta la cronaca. Ma altri invece hanno più volte chiesto un confronto nel nome di uno spirito M5s che hanno ritenuto tradito. A loro al momento non è stata data risposta. Anzi, il leader li ha liquidati come “immaturi” e ha rimandato ogni chiarimento agli Stati generali, a quando, nella prima assemblea tematica e programmatica del M5s, si discuterà dei valori fondanti del Movimento. Un momento storico sul quale ora sono puntate tutte le aspettative.
Di Maio ha scelto poi di appellarsi alla “fiducia”. Lo ha detto chiaramente: “Mi fido di voi” e di quello che sarà. Eppure proprio una delle accuse più forti dei suoi detrattori è quella di non essersi fidato di chi aveva intorno, o almeno non abbastanza per delegare il potere. La decisione di lasciare o almeno di fare un passo di lato, spiegano alcune fonti interne, è il prodotto di mesi di isolamento e scontro anche con alcuni dei suoi uomini più vicini: Di Maio ha sofferto e soffre le critiche e ancora di più l’emergere di leadership che siano alternative alla sua. A fatica riesce ad accettare Alessandro Di Battista, ora tra i primi indiziati che potrebbero essere intenzionati a riprendersi un posto tra i vertici del Movimento. Da mesi raccontano di un Di Maio arroccato con alcuni fedelissimi, con molti dei quali ha finito per litigare. Delicatissimo, se non problematico, il rapporto con il premier Giuseppe Conte. “Una persona incredibile”, l’ha definita nel suo discorso di dimissioni. Ma anche “un cittadino diventato politico” con il quale “non è andato sempre d’accordo”. E’ una notizia: finora aveva sempre smentito una qualsiasi divergenza di opinione. Dietro le quinte però, da tempo non è più un segreto, sono tante le tensioni maturate sul campo. Innanzitutto perché Conte, a questo punto l’ormai ex capo politico ci tiene molto, è pur sempre una “sua creatura” e invece ha scelto di prendere una sua strada in quasi totale autonomia. E ogni volta che sui successi del governo è finito il volto del premier, Di Maio ha sentito una stretta al cuore. Forse proprio una di quelle pugnalate di cui parlava.
Il gesto di andarsene lo studiava da un po’. Ha detto che lavorava al discorso da un mese, ma è più probabile che fosse parte della scena che ha costruito per il suo saluto. Di Maio ha studiato ogni dettaglio per l’addio, mentre lascia i suoi in una delle fasi più incerte (e queste sì impreparate) per il Movimento 5 stelle. Beppe Grillo osserva da lontano: i rapporti sono molto tesi e nonostante ciò il garante a fine novembre era sceso a Roma solo per registrare un video e rilanciare la leadership del capo politico. Pensava non ci fossero alternative. Ora il comico, che di mosse fatte d’istinto è maestro, sa che serviva una bomba gettata al centro della stanza per smuovere qualcosa. Di Maio per congedarsi ha scelto di fare due gesti: ha citato Gianroberto Casaleggio e si è tolto la cravatta. Forse uno dei segnali più forti per dire che proverà davvero a tornare alle origini, alle piazze e a quello che erano prima. A meno che non abbia altro in mente.