La notizia del giorno non è se processare o meno qualcuno: questa è semmai una questione che interessa una parte della casta politica. C’è una notizia molto più importante per la gente comune di cui parlare: il governo giallo-rosso sta riducendo le tasse sui redditi da lavoro dipendente.

Le riduzioni dovrebbero essere così: fino a 1200 euro all’anno per i redditi da 8 a 28 mila euro; riduzioni da 960 a 1200 euro l’anno per i redditi da 28 a 35 mila euro; e 960 euro per i redditi da 35 a 40 mila euro. Finalmente! Avanti così. Credo che sia un primo passo, importante, ma ancora un primo passo. Occorre fare molto di più e si spera che ci sia il tempo di farlo durante questo governo e poi anche in quelli che verranno.

In realtà si tratta di un secondo passo, poiché il primo passo, anche se questo non piace ricordarlo a molti esponenti politici della sinistra e del governo, è stato fatto dal tanto vituperato governo di Matteo Renzi. Parlo dei famosi 80 euro in più al mese per i lavoratori con reddito fino a 1500 euro introdotti nel 2014. I più critici con Renzi dicono che sia l’unica cosa di sinistra che quel governo abbia fatto. Altri dicevano si trattasse solo di un’elemosina, ma elemosina non era e non è stata percepita come tale dai cittadini.

Bisogna riconoscere che una politica di redistribuzione fiscale dei redditi a favore del lavoro non si era mai vista prima di Renzi e la gente glielo riconobbe alle elezioni europee che si svolsero pochi mesi dopo il provvedimento redistributivo. E la gente aveva ragione.

Altro che elemosina. Era una politica seria e sacrosanta a favore delle classi sociali più deboli, quelle che avevano sofferto di più almeno dall’introduzione dell’euro. Tutti lo riconoscevano e ne parlavano, ma mai nessuno aveva fatto prima nulla per loro. Anzi, i governi di centrodestra avevano ulteriormente caricato quei miseri redditi da lavoro di altre tasse: tasse su tasse.

Questa è la riduzione delle tasse che la gente intende quando sente parlare di riduzione del carico fiscale. I cittadini elettori hanno sempre inteso per riduzione delle tasse quella sul lavoro dipendente, non la flat tax per i ricchi, come vuole la destra.

Da tempo si parlava di ridurre le tasse sul lavoro. I sindacati ne hanno fatto una litania fin dall’introduzione dell’euro al posto della lira. All’epoca veniva richiesta come una parziale compensazione per l’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità.

Credo che l’innamoramento degli italiani per Silvio Berlusconi prima e per Matteo Salvini dopo sia dovuto al fatto che quando li sentono parlare di riduzione delle tasse intendono per i poveri, ma il grande equivoco è che quei leader invece pensano ai ricchi.

Ricordo ancora una trasmissione fra il drammatico e il farsesco di Porta a Porta in cui Bruno Vespa avrebbe presentato in anteprima la tanto attesa riforma dell’Irpef del 2003. Quando, dopo una lunga attesa e tanti dibattiti per vaticinarla in trasmissione, alla fine alcuni rappresentanti del governo si presentarono in collegamento per parlarne, si capì subito quale fosse l’equivoco pazzesco. E lo capì subito Vespa con l’intuito politico che ha sempre avuto.

La riforma dell’Irpef del governo Berlusconi prevedeva una riduzione per i redditi più alti e un aumento per i redditi più bassi. Il povero Vespa ripeteva incredulo: “Ci deve essere un errore. Ci deve essere un errore”. La riforma fu ritirata nei giorni successivi e non se ne sentì più parlare.

E i sindacati avevano ragione a chiedere una riduzione delle tasse sul lavoro. In realtà, i redditi da lavoro dipendente sono crollati e con loro la domanda interna, almeno dal 1993, dal Protocollo d’intesa fra sindacati, industriali e governo, firmato sotto la guida di Carlo Azeglio Ciampi, quando era ministro dell’Economia.

Ne ho parlato già in un articolo pubblicato su lavoce.info di qualche anno fa in cui facevo notare che uno dei motivi principali della bassa crescita italiana era la slavina dei redditi da lavoro dipendente, caduti dal 1993 in pochi anni di circa l’11% del Pil. È almeno da allora che si sente dire la frase che le famiglie non arrivano a fine mese.

La riduzione delle tasse sul lavoro l’aveva poi promessa Romano Prodi nel suo governo del 2006, ma, per avere un avanzo di bilancio forse fin troppo alto, elaborò quella che fu presentata alla stampa come la strategia dei due tempi: prima la riduzione del debito pubblico, poi la riduzione del cuneo fiscale. Abbiamo rievocato questo periodo come quello in cui qualcosa si è rotto fra i sindacati, compreso la Cgil, e il centro-sinistra, creando un vuoto politico che è stato poi occupato dal Movimento cinque stelle.

Questa volta si invertono finalmente i due tempi: prima la riduzione fiscale per i redditi da lavoro e poi la riduzione del debito pubblico. In realtà, questi interventi di redistribuzione a favore dei più deboli, che dovrebbero pur sempre essere l’obiettivo prioritario di governi di centro-sinistra, può avere effetti espansivi sui consumi e sulla domanda interna che, negli ultimi due decenni, si è ridotta sempre di più, anche a causa della politica dei redditi. Indirettamente, questo dovrebbe avere un effetto positivo sulla domanda, sulla crescita e quindi anche sul rapporto debito/Pil.

Naturalmente, considerata l’entità modesta dell’intervento, è probabile che l’effetto sarà marginale e per questo dico che resta ancora molto da fare, ma la strada è quella giusta. Le tasse sul lavoro sono state aumentate, anziché ridotte, dai governi di centro-destra che hanno preferito eliminare l’Imu anche sulle case dei ricchi piuttosto che ridurre il peso fiscale sui redditi da lavoro più bassi.

Anzi, riducendo la tassazione sulla proprietà, compresa la tassa di successione, e la flat tax sui redditi da lavoro autonomo, indirettamente, siccome il debito continuava ad aumentare, si andava a pescare sempre di più nelle tasche già mezzo vuote del lavoro dipendente.

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