Non sono tra coloro che si stracciarono le vesti quando nell’ottobre 2015 la piccola Grom fu ceduta alla multinazionale Unilever, già peraltro proprietaria di altri marchi gelatieri, come Algida e Magnum. Infatti non tutte le cessioni di aziende italiane alle multinazionali straniere necessariamente sono un male. Dipende dalla motivazioni dei cedenti, dalle prospettive per l’azienda ceduta e per l’occupazione in Italia, oltre che dal mantenimento della filosofia ispiratrice del brand. E forse le cose per Grom fin dall’inizio non sono andate come avevano voluto farci credere.

La cautela sull’informazione economica aziendale è buona norma, anche se poco praticata, gli uffici marketing hanno spesso la meglio sulla professionalità dei giornalisti. Grom era un’ottima azienda, che aveva costruito la sua fortuna sulla persuasione della clientela di acquistare un gelato naturale, “come quelli fatti una volta”, di altissima qualità. In realtà, l’alta qualità dei gelati, quella vera, è inconciliabile con i grossi numeri. Prima della vendita Grom disponeva già di 67 gelaterie, di cui tre a New York, una a Osaka, una a Malibu, una a Parigi, una a Tokyo e fatturava circa 30 milioni di euro. In queste condizioni chiunque capisce che la produzione di gelati doveva basarsi su preparati, che venivano finiti localmente. Non quindi un prodotto “fresco” al 100%.

Fu proprio questo equivoco (tutti credevano che il prodotto fosse al 100% naturale, nonostante i numeri grossi) che rese possibile l’acquisizione da parte della multinazionale, verosimilmente in un periodo, certo di fatturati crescenti, ma anche di costi e di perdite crescenti, nell’ordine di un paio di milioni all’anno. Grom poteva diventare veramente un prodotto industriale da grandi fatturati, continuando a far credere ai consumatori che era il gelato “di una volta”.

Ora non c’è nessun cambio di strategia. Unilever già nel 2015 sapeva quale avrebbe dovuto essere il destino di Grom: poco alla volta lasciar perdere le gelaterie (costi elevati, profitti limitati) e sfondare nel mercato della grande distribuzione. Anche Guido Martinetti e Federico Grom verosimilmente lo sapevano, ma non potevano farci nulla, a meno di ridurre le loro ambizioni. Se in un’azienda le ambizioni di guadagno dell’imprenditore vengono prima della realtà del mercato, bisogna adattarsi e cambiare musica, lasciando fare alle multinazionali che di profitti e di mercati se ne intendono.

Oggi in Italia Grom conta ancora 46 negozi, a cui vanno aggiunti due chioschi all’interno dei Carrefour Gourmet di Roma e Milano. Unilever sostiene che dal 2015 al 2019 Grom è cresciuta tutti gli anni, con una crescita complessiva del 46,7% e c’è da crederci, ma non è oggi, né forse è mai stato anche ieri “il gelato più buono del mondo”.

Grom è venduto nella grande distribuzione a oltre 20 euro al chilo, un prezzo statosferico. Le sue etichette ancora puntano sulla qualità nominale delle materie prime, ma il prodotto viene commercializzato con un inquietante “creato in Italia”, che se forse non pregiudica la qualità desiderata, certamente potrebbe mettere in agitazione i dipendenti italiani. E anche in barattolo fatica a sfondare, a scalzare Häagen-Dazs dalla leadership nella fascia alta dei gelati, in cui l’azienda americana ancora trionfa, peraltro con un prodotto caratterizzato in maniera nettamente differente.

Intanto, oltre alla sede storica di Torino vengono chiuse anche le gelaterie di Alessandria, Modena, Treviso, Udine e Mestre. E altre tre chiuderanno a breve. Inutile piangersi addosso, per il gelato fatto come una volta le alternative locali non mancano. Se poi parliamo di industrie, anche qui non vale lamentarsi, i nodi prima o poi vengono al pettine, con tutte le conseguenze del caso, e questa è proprio una di quelle.

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