Qualunque sia l’esito delle elezioni in Emilia-Romagna e la sua ricaduta nazionale, papa Francesco resta convinto che vada stoppato il mix pericoloso di sovranismo, populismo e clerical-nazionalismo, che in Italia è rappresentato dal fenomeno Matteo Salvini ma si manifesta egualmente in altre nazioni e leader: da Viktor Orban in Ungheria a Jair Bolsonaro in Brasile.
E non si tratta di una volontà di interferenza nelle vita politica di un paese, perché Francesco è del tutto alieno dalla visione di un Vaticano che si “allea” a determinati partiti (come è stato per oltre mezzo secolo in Italia). Per il papa argentino si tratta invece del discrimine tra valori cristiani e umanistici da una parte e una tendenza dall’altro, che per lui ha il sapore della mentalità totalitaria che cento anni fa travolse l’Europa occidentale e centrale.
Lo ha ripetuto spesso negli ultimi tempi, evocando gli anni dell’avvento del nazismo. In questo senso Francesco ha voluto stoppare l’apertura a Salvini fatta di punto in bianco l’autunno scorso da un cardinale importante come Camillo Ruini, ex presidente della Cei e pupillo politico di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Ruini, il 3 novembre, aveva dichiarato al Corriere della Sera di trovare sbagliata un’immagine tutta negativa di Salvini e che il leader della Lega aveva “notevoli prospettive davanti a sé”. Certo doveva ancora “maturare” sotto vari aspetti, ma in ogni caso il dialogo con lui era “doveroso”.
Non erano passate neanche due settimane che Francesco, ricevendo in Vaticano i rappresentanti dell’Associazione internazionale di diritto penale, ribadiva il suo allarme per il ripresentarsi di una cultura dell’odio e dello scarto, nutrita di uno spirito di persecuzione contro l’Altro. “Io vi confesso – esclamò il Papa il 15 novembre – che quando sento qualche discorso di qualche responsabile del governo mi vengono in mente i discorsi di Hitler nel ‘34 e nel ’36…”. Poi soggiunse, scandendo le parole: “Occorre vigilare, sia nell’ambito civile sia in quello ecclesiale, per evitare ogni possibile compromesso, che si presuppone involontario, con queste degenerazioni”.
Il mese successivo Francesco ha ricevuto i gesuiti della rivista Aggiornamenti Sociali, fra cui l’ex direttore padre Bartolomeo Sorge (che aveva diretto anche La Civiltà Cattolica dal 1973 al 1985), ed ecco che l’Osservatore Romano piazza l’evento tutto sommato secondario in prima pagina con una grande foto del Papa che abbraccia Sorge.
Per il mondo cattolico il segnale è trasparentissimo. Sorge è stato negli anni Ottanta l’esponente di una visione ecclesiale-sociale nutrita di cattolicesimo democratico, l’esatto contrario della linea di “riconquista” cattolica della società contemporanea considerata malata di secolarismo e di relativismo. Sorge e Ruini sono sempre stati ai poli opposti.
Ma soprattutto Sorge ha pubblicato da poco un pugnace volumetto intitolato Perché il populismo fa male al popolo, in cui sottolinea che il populismo nella sua essenza cela il dominio di pochi, schiaccia in nome di un “popolo” mitizzato e idolatrato il bene comune e i diritti delle minoranze. In sintesi – scrive Sorge – il populismo “è privo del senso dello Stato, uccide il bene comune, è nemico della laicità positiva, specula sulle paure e sui problemi delle persone e fa dell’altro un nemico”. Altro che farlo “maturare” secondo la ricetta ruiniana!
È un dato di fatto che sull’argomento il cattolicesimo italiano sia diviso in molte correnti. Non c’è solo il bianco e il nero. Le elezioni dell’Umbria hanno dimostrato che esistono ad esempio fasce di elettorato bianco, del tutto d’accordo con Francesco nella tutela degli immigrati, e al tempo stesso desiderosi di voltare pagina rispetto a una “egemonia rossa” pluridecennale sentita psicologicamente come soffocante.
La riflessione, a cui invita Francesco, è tuttavia orientata a cogliere la radice profonda del fenomeno sovranista-populista, che in Italia esibisce presepi e invoca “pieni poteri”. Una radice illiberale e antidemocratica. È significativo il modo con cui il vescovo di Curia Rino Fisichella, allineato con Francesco, abbia smontato nel corso di un dibattito pubblico il sottotitolo un po’ furbetto dell’ultimo libro di Bruno Vespa, Perché l’Italia diventò fascista (e perché il fascismo non può tornare).
Il fascismo non può tornare – ha rimarcato Fisichella, che è presidente del Consiglio per la Nuova evangelizzazione – se… Se il parlamento è forte, se le istituzioni collaborano tra loro, se il popolo è responsabile”. Più che la ricerca di un uomo forte, servirebbe oggi un pensiero forte. Perché se il pensiero politico è debole, allora il popolo è debole. “E bisogna fare molta attenzione ai modi di parlare”, ha aggiunto Fisichella. “Perché il linguaggio violento generalizzato crea comportamenti violenti”. È il commento di un vescovo lombardo-siciliano, che ha capito perfettamente i meccanismi del gioco del suo conterraneo Salvini. Né va trascurato l’argine che l’Avvenire, interprete preciso della linea Bergoglio e della presidenza Bassetti della Cei, pone sistematicamente alla tendenza banalizzante del centro-destra sovranista tipo “il fascismo fa parte della nostra memoria” .
Giovedì 23 gennaio il giornale dei vescovi ricorda in seconda pagina che la “Costituzione è nata antifascista”. A pagina 3 un articolo dello scrittore Ferdinando Camon, a proposito di una “via Almirante” decretata a Verona, è titolato: Segre è la storia giusta, Almirante il passato odioso.
E nelle pagine culturali lo storico Andrea Riccardi rievoca la strage di monaci, diaconi, sacerdoti, fedeli nel monastero etiopico di Debre Libanos, ordinata dal generale Rodolfo Graziani nel 1937. Una rappresaglia, crimine di guerra, “simbolo del regime e della logica di violenza e di odio che lo pervadeva”.
Non si potrà dire che la Chiesa di Francesco ha taciuto.