Una guerra trascorsa in fuga o rinchiusi nei campi di concentramento nazisti. L'accoglienza in una villa in provincia di Bergamo che diventa il primo posto in cui sentirsi a casa. Una pagina di storia quasi sconosciuta che Rai 1 racconta in una fiction. Le testimonianze di due di quei bimbi a ilfattoquotidiano.it: Esther Yotvat e (con i racconti della figlia) Leah Spivak
Più di 800 orfani ebrei che hanno trovato un futuro, dopo una guerra trascorsa in fuga o rinchiusi nei campi di concentramento nazisti. Questa è la storia di riscatto dei bambini di Selvino, accolti dal 1945 in una villa, un tempo colonia fascista, in una valle a Nord Est di Bergamo. Una villa che è stato il primo posto in cui si sono sentiti – dopo anni – a casa. Una prospettiva all’interno della narrazione di quegli anni, tanto importante quanto sconosciuta, che sarà rievocata in una fiction in onda per quattro lunedì in prima serata su Rai 1 fino al 3 febbraio, con la regia di Michele Soavi e la partecipazione di Michele Riondino e Isabella Ragonese.
Quel posto si chiamava Sciesopoli, perché era una “ex tendopoli” (così i fascisti definivano i campeggi da loro organizzati) dedicata alla memoria del patriota risorgimentale Amatore Sciesa. Una specie di favola, la vittoria morale dopo quella militare: un posto fondato da un regime fondata sulla violenza e poi sostenitore dell’orrore della Shoah trasformato in un posto di accoglienza. Sciesopoli, dopo la Liberazione dal nazismo e dal fascismo, divenne sinonimo di “calore umano”. E’ questa parola, “calore umano”, che utilizza più spesso Esther Yotvat, una delle bimbe di Sciesopoli, accolta a Selvino dopo essere rimasta orfana. Qui divenne amica di Leah Spivak, un’altra bambina arrivata nella villa dopo un lunghissimo viaggio. Oggi Esther ha 89 anni e racconta la sua storia a ilfattoquotidiano.it insieme a Tami Sharon, la figlia di Leah.
Figlia di un veterano dell’Impero austro-ungarico
Le radici di Esther sono pienamente europee. Il padre vive in a Leopoli, allora capitale del regno di Galizia e Lodomiria e oggi parte dell’Ucraina, e combatte la prima guerra mondiale – venendo anche ferito ad una gamba – per l’Impero austro-ungarico. La sua morte dopo la guerra sarà solo la prima di una serie di sciagure. Ma Esther, 8 anni, non può immaginarlo quando la madre la manda in un campo estivo nell’estate del 1941. Intanto i nazisti conquistano Leopoli. I bambini vengono evacuati, Esther non ha nemmeno il tempo di salutare i genitori ed il fratello. Non li rivedrà mai più. La bambina viene portata in Siberia dove vive e studia in un orfanotrofio: “Chiedevo in continuazione quando saremmo potuti tornare a casa. Ma i russi non ci dicevano nulla se non di aspettare il termine del conflitto”.
“Sono comunista”. “Ma anche in Israele puoi esserlo”
Tornata a Leopoli, il primo obiettivo è ritrovare la casa e gli affetti: “Ma non ho trovato nessuno. Il nostro appartamento era occupato da sconosciuti e i vicini dicevano di non conoscere il destino dei miei familiari”. A Esther non resta che recarsi nella stazione della città: “Credevo di essere sola al mondo, nessuno mi voleva. Sono stata per alcuni giorni senza cibo tenendomi in vita solamente con l’acqua”. Poi, qualcuno rompe il muro di vetro: “Un uomo si è accorto di me e mi ha chiesto cosa ci facevo lì. Le ho raccontato della mia situazione e lui mi ha chiesto se volevo andare in Israele”. Esther però rifiuta: “Sono comunista”. Ma lui le replica sorridendo: “Anche in Israele puoi essere comunista”. Così Esther decide di partire, salendo su un treno che la porta 300 km più a ovest, a Cracovia (Polonia).
“Se qualcuno risponderà me ne andrò”
Il treno si ferma nella città polacca per una sosta ed una giovane donna sale ad incontrare i bambini: “Ci ha chiesto di dove eravamo e dove erano i nostri parenti. Io ho fatto il nome di uno zio dentista che viveva a Leopoli”. La donna si illumina: “Lo conosceva”. Quindi chiede al responsabile del viaggio se può portare Esther da lui e lui conferma dicendo che il treno avrebbe aspettato. La giovane accompagna la ragazzina all’ingresso di un edificio: “Mi disse di salire le scale e di suonare il campanello. E poi aggiunse: ‘Se qualcuno risponderà me ne andrò’”. Lo zio apre la porta e la giovane, come promesso, scompare. Esther non la rivedrà mai più. La bambina riabbraccia lo zio e i due piangono insieme. Ma lei vuole ripartire, vuole andare in Israele: “Gli chiesi di riportarmi al treno per continuare il viaggio”.
“Selvino era un posto bellissimo”
E il viaggio continua. Esther approda a Vienna: “Ci dissero che avremmo dovuto attraversare le Alpi a piedi”. Ma è l’ultima fatica, la meta si sta ormai avvicinando: “Giungemmo a Milano con il pullman e da lì ci recammo a Selvino”. L’odissea è durata sette mesi. Ma quella che aspetta i naufraghi è un’isola dei Feaci: “Selvino era un posto bellissimo. C’erano letti con lenzuola bianche e addirittura una piscina”. Il direttore di Sciesopoli è Moshe Zeiri, galiziano come la bambina e militare della Brigata Ebraica all’interno dell’esercito inglese. Dopo aver parlato con i bambini e raccontato la storia della colonia di Sciesopoli, Zeiri si impegna affinché gli orfani facciano diverse attività. Esther impara lì la lingua ebraica: “Prima non conoscevo nemmeno una parola”. E, grazie al periodo trascorso a Selvino, l’Italia resta impressa in modo indelebile nella sua memoria: “Ricordo una maestra milanese dei bambini, si chiamava Noga”. Ma non può ricordare i volti degli abitanti locali: “Loro parlavano con i nostri insegnanti”.
“Non smettono mai di ringraziare il nostro paese”
Dopo Selvino, la bambina si imbarca di nascosto per Israele e – dopo un primo respingimento e la prigionia in un campo a Cipro – si ricostruisce una vita: “Ho studiato, sono entrata nell’esercito, mi sono sposata e ho avuto 2 figli”. Proprio il matrimonio le permette di ritornare nel Paese che l’ha accolta per primo: “Mio marito Eliazer lavorava al ministero degli Esteri e per questo ho vissuto a Roma per 5 anni. Tornare nel vostro Paese è stato molto bello perché ho richiamato alla mente l’esperienza di Selvino, dove avevo trovato una famiglia”. “Tanti di questi bambini l’hanno trovata a Sciesopoli”, conferma il ciclista varesino Giovanni Bloisi. Bloisi che nel 2017 ha viaggiato in bicicletta dall’Italia fino ai kibbutz di Zeelim e di Rosh Hanikra, i due luoghi dove sono ospitati i bambini di Selvino: “Li ho incontrati e non smettono mai di ringraziare il nostro Paese”.
“Erano tutti bambini di Selvino”
Sciesopoli è rimasta nel cuore anche all’amica di Esther, Leah Spivak: “Sin da quando ero bambina – racconta la figlia Tami Ben Dov – mia mamma mi ha sempre accompagnato una volta all’anno ad un incontro con altre persone. Solo col tempo ho capito la verità: erano tutti bambini di Selvino”. Bambini che hanno infatti fondato l’associazione “Children of Selvino” la cui attività per la memoria ha solide basi anche in Italia. Ma tutto è iniziato durante la guerra: “Mia madre aveva 11 anni quando scoppiò. Durante l’estate del 1941, lei sarebbe dovuta andare (come Esther) ad un campo estivo. Ma l’avanzata nazista verso la sua cittadina (Rokitno, Polonia) le scombinò i piani: mia nonna la caricò su un treno con lo zio Abraham che la condusse dopo varie peripezie in Uzbekistan”. Leah non ha più rincontrato sua madre: “Lei, suo marito e mio zio (il fratello di Leah) non ce la fecero a scappare e vennero uccisi”. Ma la bambina continua a vivere come rifugiata in Unione Sovietica. Anche se non è facile: “Vivevano in una fattoria e mia mamma dovette lavorare per riuscire a sopravvivere nonostante la carestia”.
“Ha iniziato a camminare lungo le rotaie”
All’orizzonte della steppa c’è una luce: “Un giorno mia madre ha sentito parlare di una zia che viveva a Kokand (Uzbekistan). Ma non aveva soldi per potersi pagare il viaggio. E quindi ha iniziato a camminare lungo le rotaie”. Dopo ore, la meta viene raggiunta. Ma il viaggio non è ancora finito: “Conclusa la guerra, mia mamma con la zia è tornata in Europa sperando di rivedere i suoi genitori dopo anni. Ma non c’era più nessuno”. Anche lo zio Abraham non la potrà più abbracciare: è morto combattendo con l’Armata Rossa nella battaglia di Berlino. Leah sperimenta così lo stesso straniamento di Esther: “Mi ha raccontato che era esausta, arrabbiata, affamata, sporca e – soprattutto – sola”. A questo punto però i destini delle due bambine si fondono: “Si sono incontrate a Bielsko (nel sud della Polonia) e non si sono più separate”. Attraversate le Alpi e giunte a Selvino, le due adolescenti trovano una casa. Che è solo un antipasto però della Eretz Yisrael, la loro Terra Promessa. Una terra che anche Leah raggiungerà dopo un mese trascorso in un campo di prigionia a Cipro.
“L’anima dei miei cari ha macchiato il sangue di quegli assassini”
Proprio da quella terra al di là del Mediterraneo Leah riceve per la prima volta notizie dai familiari. I mittenti delle lettere sono gli zii Gad e Zehava, emigrati in Israele prima del conflitto. La ragazza scrive queste parole per rispondere: “Miei cari zio e zia (…) stavo aspettando le vostre lettere con incredibile desiderio. Confesso che ero gelosa degli altri mentre ricevevano i messaggi perché a me non ne arrivavano. Appena li ho ricevuti però, ho aspettato ad aprirli. Prima li ho stretti al cuore e ho pianto tanto, tantissimo. Erano lacrime di gioia mista a tristezza. Ho scoperto così tanto calore umano nelle lettere; esse mi hanno incoraggiato e mi hanno dato la speranza per continuare a vivere. Fino al mio arrivo a Selvino la mia esistenza era stata piena di disperazione e colma di depressione. Ero esule, tra gli estranei. Spesso ho anche rimpianto di aver abbandonato casa. A volte penso che sarebbe meglio se fossi con i miei cari genitori, che sono stati la mia salvezza e che sono stati uccisi da assassini senza pietà. L’anima dei miei cari ha macchiato il sangue di quegli omicidi. Lo ammetto, a volte vivo immersa nella rabbia. Ma poi penso che sono giovane e che la mia vita è ancora lunga davanti a me. Dopo tutto, non sono la sola. Molti miei coetanei hanno conosciuto il sapore della guerra. E questo alle volte mi incoraggia”.
“La sua grande discendenza è la sua vendetta contro i nazisti”
Giunta finalmente nella sua nuova casa, Leah fonda con altri il kibbutz di Zeelim (nel deserto meridionale del Negev) e qui ricomincia a lavorare: “La vita non era facile in quel posto. Ma lei era molto determinata e voleva contribuire alla fondazione del nuovo Stato”. Nel 1954 si sposa e dal matrimonio ha quattro figlie. Tami è una di queste. E racconta che sua madre è sempre stata orgogliosa della famiglia che si era formata in Israele: “Diceva sempre che la sua grande discendenza era la sua personale vendetta contro i nazisti”.