Due rinascite, una ambientale e l’altra sociale. Corrono vicine e poi si intrecciano insieme ai tessuti sul tavolo da lavoro. È la storia del progetto Quid, il brand di moda etica che crea vestiti e accessori usando per l’80 per cento stoffe già esistenti, offerte da aziende del settore. A occuparsene, persone – soprattutto donne – che hanno vissuto contesti di fragilità e che, grazie a questa iniziativa, possono avviare una seconda vita lavorativa. Nato nel 2013 a Verona, ora ha 128 dipendenti e fra store e outlet conta nove punti vendita: a Verona, Milano, Mestre, Bologna, Bassano del Grappa e Genova. Ha chiuso il 2019 con tre milioni di fatturazione.
“Attenzione ambientale e attenzione al sociale: sono le nostre due anime”, spiega al Fattoquotidiano.it Anna Fiscale, classe 1988, presidente e fondatrice di Quid. Partiamo dalla prima, e facciamo una premessa: la moda inquina. Secondo i dati riportati dalla Ellen MacArthur Foundation, le emissioni totali di gas effetto serra dovute alla produzione tessile sono pari a 1,2 miliardi di tonnellate all’anno: più delle emissioni prodotte da tutti i voli internazionali e dal trasporto marittimo messi insieme. Fabbricare nuovi tessuti, quindi, ha costi ambientali e atmosferici. Rendere circolare l’industria della moda – e riutilizzare stoffe già esistenti – sarebbe una possibile soluzione per ridurre l’impatto sulla natura, ma ancora rimane lontana: meno dell’1% del materiale utilizzato per produrre abbigliamento viene riciclato in nuovi vestiti.
Quid, invece, cerca di muoversi proprio in questa direzione: l’80% degli abiti è creato con eccedenze di tessuto donate oppure cedute a un prezzo simbolico da molte aziende del settore. “Si parla di circa 30-40mila metri per azienda ogni anno” precisa Fiscale. Ma quanti metri ci vogliono per fare un abito, in media? “In genere un capo d’abbigliamento consuma 2 metri. Quindi riusciamo a realizzarne più o meno 15mila con le donazioni di una singola azienda. Ogni anno produciamo circa 100mila capi di abbigliamento e 300mila accessori”. Nel 2019 Quid ha usato 200mila metri di tessuto riutilizzato, in chilometri è la distanza fra Milano e Bologna. E dall’inizio dell’attività hanno coperto più o meno la distanza Milano-Roma: circa 500 chilometri.
La lavorazione delle stoffe introduce la seconda anima del progetto, quella solidale: quasi 130 dipendenti, al 90% donne, di 17 nazionalità diverse. La maggior parte ha dovuto affrontare storie difficili: vittime di tratta, ex detenute, ragazze richiedenti asilo per motivi umanitari. E poi persone con invalidità e malattie. “Siamo in rete con diverse entità, sia pubbliche che private, fra cui il collocamento mirato, il Serd (Servizio per le Dipendenze patologiche), l’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII e il Telefono Rosa. Quando queste realtà capiscono che qualcuno può essere inserito in Quid ci chiamano – racconta Fiscale – a quel punto facciamo partire un tirocinio, un periodo di prova. Finito quello, nella maggior parte dei casi proseguiamo la collaborazione: se la persona ha meno di 30 anni proponiamo un apprendistato, in alternativa un contratto”. I dipendenti hanno una fascia d’età che attraversa tre generazioni: dai 19 ai 64 anni. La formazione è tutta pratica, direttamente sul posto di lavoro, dai processi più semplici a quelli più complessi.
“Ho saputo del progetto dai giornali e ho cominciato come socia volontaria, poi mi hanno messo in prova. Ora lavoro”, racconta Maria. Prima di Quid lavorava in proprio nel mondo della moda, poi, alcuni disturbi psichiatrici la costringono a chiudere l’attività: “Mi sono ritrovata senza lavoro, senza poter scegliere di andare avanti con le mie forze”. Con Quid, rinasce: “Mi ha ridato la dignità. Posso solo ringraziare: vedo che riesco a lavorare, riesco a esserci. Ho imparato cose nuove e ho legato con i colleghi. Fra di noi c’è amicizia: quando sono arrivata, la prima cosa che mi hanno detto è stata: ‘guarda che qui siamo tutte sorelle’. Mi è bastato per capire qual era l’ambiente che stava per accogliermi”. Quid ha fatto partire anche un servizio di welfare aziendale, “Liberamente”, che fornisce ai lavoratori la possibilità di parlare con una psicologa, una volta a settimana, e che li aiuta con la burocrazia e i processi di digitalizzazione, in modo da favorire il loro inserimento sociale. Ecologia e solidarietà insieme, per tessuti e persone.