di Margherita Cavallaro

Din Don
“Chi è?”
“Salve, mi chiamo Matteo. Lei lo conosce il Signore?”

Non lo so, ma di Signori ne conosco tre: Otello Stefanini, Andrea Moneta e Mauro Mitilini. Voi li conoscete? Sono i giovani carabinieri che sono stati uccisi al Pilastro di Bologna dalla banda della Uno Bianca.

Al Pilastro c’è un monumento alla loro memoria, ma Matteo Salvini non lo ha degnato di uno sguardo perché distratto dall’irresistibile pulsione da dodicenne di andare a suonare a un citofono per fare il burlone. Non provate a dire che sto mancando di rispetto a una madre che soffre e a suo figlio, morto suicida perché malato di Sla.

Chi manca di rispetto è chi si fionda come uno sciacallo – in una scenetta da romanzo di Federico Moccia -, invece di scusarsi per come lo Stato che rappresenta abbia fallito nel dare cura e supporto a un ragazzo vulnerabile. Chi manca di rispetto è chi ignora il ricordo di tre carabinieri uccisi da criminali che, guarda caso, erano anche poliziotti italiani. Prima gli Italiani. Anche nell’impunità. Anche nell’oblio.

Nel frattempo invece, oltremanica, ho cambiato lavoro e sono stata incaricata, tra le altre cose, di rendere la compagnia (una multinazionale di molto successo) più internazionale, gay e generalmente più inclusiva per il personale. Potrebbe sembrare che la mia vita professionale e quella di un uomo adulto che si comporta come un ripetente alle scuole medie non c’entrino niente l’una con l’altra. Ma vi prometto che non mi sono bevuta il cervello in questo mio periodo di assenza dalla scena pubblica: la cosa che hanno in comune è che sono entrambe risposte a una crescente diversità.

Basta guardarsi attorno per rendersi conto che mezzi di viaggio più rapidi e sicuri, tecnologia e leggi più inclusive stanno permettendo, a sempre più persone, di essere sé stesse e di spostarsi alla ricerca di luoghi che consentano loro una vita migliore. Io ne sono un esempio lampante: sono lesbica ed emigrata. Nel mio piccolo, sono una variabile, una novità, un elemento di diversità e cambiamento in Inghilterra, proprio come lo è un tunisino a Bologna.

Ora, in qualsiasi situazione le possibili reazioni alla diversità sono due: o la si abbraccia come fa la mia attuale azienda, o si fa di tutto per eliminarla e riportare “la norma”. Qual è il problema con questo secondo approccio – esemplificato non solo da Matteo testimone di Jehovah, ma anche da Giorgia Meloni (dj, faccia partire il remix prego) quando gioca con le statuine del Presepe? Tornando nel mio ruolo tipico di Alberta Angela de nojatri, lo spiego con la scienza.

In generale, in qualsiasi sistema la diversità aumenta produttività, efficienza, sostenibilità e capacità di rispondere a situazioni avverse. Questo è vero tanto nel posto di lavoro, quanto negli ecosistemi e nelle specie viventi. Ad esempio, se fossimo esattamente tutti uguali, una qualsiasi epidemia ci sterminerebbe tutti, senza eccezioni, perché tutti saremmo ugualmente vulnerabili alla malattia.

La diversità ci rende collettivamente migliori in tutto, ci arricchisce. Ma può anche fare paura a quei singoli individui che si vedono “minacciati” da soggetti che non capiscono e che, a volte, hanno più successo di loro. La multinazionale di successo mi ha assunta perché faccio il mio lavoro meglio degli inglesi e porto nuove prospettive che a loro mancano.

Se Salvini fosse a capo di un’azienda, invece che assumere me, avrebbe assunto un inglese alla meglio mediocre. O peggio, un mini sé capace solo di dirgli di sì. Un’azienda come quella di Salvini non sarebbe di successo, perché numerosissimi studi dimostrano che le aziende con workforce diversa hanno quasi il doppio delle possibilità di diventare leader innovativi nel mercato, mentre team diversificati prendono decisioni migliori fino all’87% rispetto agli altri (se non vi fidate, ecco un’infografica con relativi link alle fonti qui).

Il problema sta proprio qui. La società è un sistema, e un popolo è un po’come una specie. La diversità, che lo si voglia o no, è non solo una realtà ineliminabile della vita, ma anche, per certi soggetti, un costante promemoria del fatto che non sono perfetti. Come diceva Confucio: si preoccupa della lunghezza degli spaghetti degli altri solo chi sa di aver pescato quello corto.

Anche perché (siccome a certi soggetti rappresentarsi col cibo piace) se un tuo amico ha ordinato i bucatini, alla più brutta ci guadagni una forchettata extra così assaggi tutti e due. Se invece te ne stai lì in un angolo a urlare che il tuo spaghetto corto è più buono, rimani nell’angolo col tuo spaghetto corto e scotto, mentre il resto della tavolata scambia, assaggia, apprezza e gioisce.

Io amo l’Italia perché sarà sempre casa e non vorrei altro che vederla risplendere. Ma, rifiutando la diversità, l’unica cosa che ci aspetta è un’estinzione sociale e ho il timore che quando uno sciacallo si getta su un campanello per fare quello che a scuola verrebbe percepito come bullismo, questa possa essere già iniziata.

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