Il racconto di Sonja Borus, 93 anni, che ora vive in un kibbutz nei dintorni di Gerusalemme. Ha perso la madre e il fratello minore ad Auschwitz, il maggiore in Russia e il padre in un altro campo di concentramento. Lei, 15enne, trovò rifugio a Villa Emma, nel Modenese e grazie al sacerdote che le ha fatto i documenti falsi è riuscita a scappare: "Così ho avuto una vita felice"
Sonja Borus era una ragazzina di 15 anni quando è arrivata a Nonantola. Dalla Germania “alcune persone” avevano radunato un gruppo di giovani ebrei “che potessero camminare, sopravvivere al viaggio” per portarli in salvo a Villa Emma. Sonja, a Berlino, deve salutare la madre e il fratello più piccolo: non li rivedrà mai più, scomparsi dietro i cancelli di Auschwitz. Il padre era già stato ucciso in un altro campo di concentramento, mentre del fratello maggiore saprà che è morto in Russia soltanto quando arriverà in Israele.
La storia che racconta Sonja è fatta più di emozioni che di dettagli: del suo periodo a Nonantola ricorda la bellezza dello stare tutti insieme, del non essere soli, in un flusso di parole dove la gratitudine prevale sulla cicatrice degli affetti perduti. “Nel ’44 c’era la guerra e non riuscivamo ad andare in Israele. Così siamo partiti per l’Italia. Papà era già morto, mia mamma e mio fratello minore non potevano venire con me”. Sonja non conosce nei dettagli la burocrazia clandestina che le ha salvato la vita, ma sa che quello dalla Germania a Nonantola è stato un viaggio senza ostacoli. Poi l’arrivo in Israele: “Ho avuto una vita felice. Una bella famiglia, un marito e quattro figli. Nella mia vita ho lavorato in una fabbrica che faceva spazzole e a volte aiutavo nella vendemmia”. Era la vita nel kibbutz, comunità di stampo socialista dove la condivisione e il mutuo aiuto tessevano la vita di ogni giorno. “A don Arrigo, quando l’ho visto, ho fatto un regalo. Il suo ricordo è con me”.