Economia

Debiti della pa, Corte Ue condanna l’Italia per i ritardi nei pagamenti: “Stando ai dati del 2017 è stata violata la direttiva europea”

La Commissione nel febbraio 2017 aveva riaperto una procedura di infrazione contro Roma, deferendola alla Corte. In quell'anno i tempi medi per il saldo delle fatture erano di 58 giorni, mentre nel 2018 sono scesi a 46 (35 per i Comuni)

La Corte di Giustizia Ue condanna l’Italia per i ritardi nei pagamenti della pubblica amministrazione, sulla base di dati aggiornati all’aprile 2017. L’Italia, secondo i giudici, non ha rispettato la direttiva del 2011 che impone agli enti pubblici, nelle loro transazioni commerciali con imprese private, di pagare entro 30 giorni (60 per gli enti del servizio sanitario nazionale). La Commissione nel febbraio 2017 aveva riaperto una procedura di infrazione contro Roma, deferendola alla Corte, che ha poi constatato la violazione della direttiva. I dati presi in considerazione si fermano però a quello stesso anno, quando il tempo medio di pagamento stando alla Piattaforma dei crediti commerciali gestita dalla Ragioneria generale era di 58 giorni.

Stando alle rilevazioni del Tesoro aggiornate a fine 2018 il tempo medio di pagamento è sceso a 46 giorni, 35 per i Comuni. A maggio 2019, poi, è entrata in vigore la Legge Europea 2019 che per gli appalti prevede la regola del pagamento entro 30 giorni dall’adozione di ogni stato di avanzamento dei lavori. Solo “in casi eccezionali giustificati dalla natura particolare del contratto o da talune sue caratteristiche” può essere fissato “un diverso termine comunque non superiore ai 60 giorni“.

La Commissione, alla quale operatori economici e associazioni di operatori economici italiani avevano rivolto varie denunce per i tempi eccessivamente lunghi in cui sistematicamente le pubbliche amministrazioni italiane saldano le proprie fatture, aveva proposto contro l’Italia un ricorso per inadempimento dinanzi alla Corte. L’Italia ha sostenuto, a propria difesa, che la direttiva 2011/7 impone unicamente agli Stati membri di garantire termini massimi di pagamento “conformi” e di “prevedere il diritto dei creditori, in caso di mancato rispetto di tali termini, a interessi di mora e al risarcimento dei costi di recupero“.

Roma ha argomentato che le disposizioni della direttiva “non impongono, invece, agli Stati membri di garantire l’effettiva osservanza, in qualsiasi circostanza, dei suddetti termini da parte delle loro pubbliche amministrazioni”. Ma la Corte ha respinto questa tesi. Inoltre, secondo la Corte, anche se la situazione dei ritardi di pagamento delle pubbliche amministrazioni “è in via di miglioramento in questi ultimi anni”, ciò non impedisce ai giudici di dichiarare che “la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del diritto dell’Unione”. Perché “l’esistenza di un inadempimento deve essere valutata in relazione alla situazione dello Stato membro alla scadenza del termine stabilito nel parere motivato”, cioè il secondo passo della procedura d’infrazione. Nel caso di specie si è valutata la situazione al 16 aprile 2017.