In una interessante intervista, Joseph Stiglitz dice che l’euro si salverà grazie al Green deal europeo. Ma io andrei molto al di là del destino della moneta unica, che in fondo rappresenta solo una parte di quella storia straordinaria e piena di stop and go che è la costruzione europea.

Dopo tutti questi anni di delusione e malanimo verso l’Unione europea, il Green deal europeo ha tutto il potenziale per rappresentare una prospettiva di futuro positiva: un’ambizione come non se ne vedevano dai tempi dell’ampliamento della Ue, dell’euro o del mercato unico e le cui conseguenze, se la scommessa riesce, sono comparabili a quella vinta dalla Ue come barriera definitiva alle guerre civili fra europei.

Ma per riuscirci bisognerà essere pronti a una battaglia politica, economica e sociale che non sarà per niente facile. Innanzitutto perché, dopo aver perso decenni a capire se i cambiamenti climatici esistono o no, adesso siamo in grave ritardo.

E poi perché realizzare nei tempi e modi giusti il Green deal implica la fine della persistente servitù ai vari poteri economici speculativi che hanno bloccato la crescita ben più dei problemi legati al costo del lavoro: dai concessionari parassiti, alle corporazioni e ai fautori delle grandi opere pubbliche inutili e mangiasoldi; dagli ex monopolisti energetici (Eni in testa) – abbarbicati a quei vecchi privilegi che continuano ad alimentare il mito di rinnovabili ed efficienza come scelte marginali e costose e del gas, invece, come grande idea sostenibile – a quei gruppi industriali energivori o legati a prodotti insostenibili come la plastica e che non si rendono conto che anche per loro la competitività passa attraverso investimenti nelle risorse umane e nell’innovazione verde. Insomma bisognerà scegliere.

L’obiettivo generale del Green deal europeo, annunciato alla Commissione, è la neutralità carbonica o climatica. L’Ue si prefigge di raggiungere emissioni di gas serra pari a zero entro il 2050, obiettivo che sarà sancito da una “Legge sul clima” che uscirà nel marzo 2020. Ciò significa aggiornare l’ambizione dell’Ue e sostituire l’attuale obiettivo del 40% con una riduzione del 50-55% delle emissioni di gas serra al 2030.

Purtroppo i tempi che la Commissione si è data per formalizzare questa proposta in un atto vincolante sono lunghi. Il rischio più evidente nei prossimi mesi sarà dunque quello della dilazione, del rinvio, del prendere tempo. Che è evidentemente ciò che vogliono i settori fossili, gas e carbone in primis, e alcuni stati membri, che vogliono tra l’altro ottenere più soldi per smantellare i loro settori fossili (come la Polonia) o permettere che il gas rientri fra i settori da non punire (come l’Italia).

Altro tema che promette discussioni furiose è quello della riapertura delle norme e obiettivi appena approvati in materia di rinnovabili ed efficienza energetica e dei tempi della revisione al rialzo dei piani clima ed energia che i paesi membri stanno in queste settimane inviando a Bruxelles. La Commissione aveva già detto a giugno che la maggior parte dei piani provvisori, incluso quello italiano, rimanevano inadeguati a garantire il rispetto degli accordi di Parigi. L’Italia ha inviato il suo a fine dicembre, ma con delle modifiche minime.

È evidente che, se entro la Cop26 a Glasgow l’Ue e i suoi stati membri non riusciranno a dimostrare con i fatti di avere tutti l’intenzione di rivedere al rialzo i loro obiettivi di riduzione delle emissioni e di riorientare le risorse economiche verso la realizzazione degli accordi di Parigi, il Green deal rischia di essere solo un esercizio di greenwashing e le possibilità di successo dei negoziati sul clima ancora più ristrette.

Altro tema aperto è quello del meccanismo della cosiddetta “transizione giusta”, che ha l’ambizione di mobilitare 100 miliardi di euro nel periodo 2021-2027. Tutti sono d’accordo sull’importanza di questo strumento. Non si può arrivare a una transizione ecologica senza una forte politica sociale e una netta riduzione delle diseguaglianze. I fondi a disposizione sono però pochini e comunque oltre all’ammontare dei finanziamenti conteranno molto i criteri con i quali saranno gestiti e chi vi potrà accedere.

C’è il rischio reale che il contribuente europeo si ritrovi a finanziare le grandi imprese fossili – che già chiedono di essere compensate per i guadagni che perderanno -, mentre l’obiettivo deve essere quello di dare a lavoratori e lavoratrici una nuova professionalità e un accompagnamento sociale, nel quadro di un piano preciso di abbandono delle attività inquinanti e di sottoscrizione e rispetto degli impegni europei di riduzione delle emissioni da parte dei loro governi. Cosa questa per nulla acquisita, in particolare da parte di Polonia e Ungheria.

Infine, il successo del Green deal europeo dipende anche da altri fattori non di facile applicazione. Per esempio, è assurdo spendere risorse ingenti per rendere l’economia più verde e continuare a sprecare circa 40 miliardi annui del bilancio Ue in sussidi diretti e indiretti ad attività fossili o dannose per l’ambiente. E comunque il bilancio europeo rappresenta un misero 1% del Pil europeo, contro il 21% di quello americano.

C’è un gap di investimenti pubblici e privati di circa 300 miliardi l’anno per assicurare la neutralità carbonica. Quindi, il tema di risorse che non dipendono dai contributi degli Stati, le cosiddette risorse proprie della Ue, e una revisione delle politiche fiscali sono temi urgenti, anche se molto complicati perché ogni decisione in campo fiscale dipende dall’accordo unanime dei paesi europei.

Come si vede, il Green deal va ben oltre un piano di investimenti o la rimodulazione di qualche legge qua e là; rappresenta, come dicevo all’inizio, la sfida più difficile, ma anche quella più entusiasmante che abbiamo di fronte come europei ed europee. Vincerla ci restituirà quel ruolo di guida positiva e pacifica che avevano pensato per noi i padri (e le madri) fondatori del sogno europeo: insomma, molto più che la salvezza dell’euro.

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