I 5 stelle nelle urne hanno toccato uno dei punti più bassi della loro storia. Il primo punto di confronto sarà ai prossimi Stati generali di marzo, ma potrebbe essere molto tardi. L'urgenza ora riguarda i dossier sul tavolo dell'esecutivo. La road-map di Di Maio parlava di conflitto di interessi, salario minimo e acqua pubblica. Resta da vedere se saranno mantenuti o i nuovi pesi dentro l'alleanza cambieranno le priorità
Non si può dire che i 5 stelle non fossero pronti al peggio. Ma alla sconfitta, seppur annunciata, non si arriva mai abbastanza preparati. Così quando sono usciti i primi risultati con le liste precipitate sotto la doppia cifra in Emilia-Romagna e Calabria, è stato difficile nascondere il trauma. Ora è chiaro e palese per tutti: il M5s è tornato all’anno zero, il punto più basso di un percorso di sondaggi smentiti, previsioni stravolte ed exploit nelle urne. Il 4,7% dei consensi al Nord e il 6,3 al Sud sono stati una botta dalla quale dovranno provare a risollevarsi e farlo in fretta: seppur scomparsi sui territorio, restano la prima forza al governo col Pd che già chiede nuovi equilibri. Quindi, ora che l’esecutivo si prepara a riscrivere il “non contratto”, la prima cosa da portare in salvo sono i temi: “Autostrade e prescrizione? Mi sembra curioso che si rimettano in discussione”, ha detto il capo politico reggente Vito Crimi. Un primo e debole tentativo di arginare i dem. “I nostri temi non si toccano”, è il ragionamento che fanno in queste ore, quando ormai sembra che non ci sia più niente da perdere.
Del resto, che la situazione fosse molto critica, lo ha capito prima di tutti Luigi Di Maio: ha scelto di mollare tre giorni prima del voto e, di fatto, ha lasciato i suoi soli ad affrontare le telecamere. “Meglio così”, commentano fuori dai microfoni gli esponenti dei 5 stelle. Una risposta che vale più di mille analisi: la forza del leader era considerato a tal punto “esaurita” che è stato meglio andare da soli “allo sbaraglio” e accontentarsi delle briciole: 2 consiglieri in Emilia e zero in Calabria. Ora però, in attesa degli Stati generali di marzo che dovranno rivoluzionare tutto il Movimento, il M5s si aggrappa ai suoi dossier più cari. Perché se anche quelli fossero rimessi in discussione, non ci sarebbe davvero più niente da proteggere.
Il governo e l’agenda 2020: da conflitto di interessi all’acqua pubblica, che fine farà la road map di Di Maio?
Sul tavolo dell’esecutivo ci sono alcuni dei progetti su cui i 5 stelle si giocano tutto. E soprattutto quello che rimane della loro identità. Intanto sicuramente la revoca della concessione ad Autostrade e la riforma della prescrizione. Difficile che su questi due dossier anche il Pd chieda di fare passi indietro: le trattative sono ormai a uno stato avanzato e sarebbero troppe le parole che dovrebbero rimangiarsi. Il dibattito si apre per quello che riguarda l’agenda di governo da discutere per i prossimi mesi. Il premier Giuseppe Conte ha rinviato il confronto proprio a dopo le elezioni Regionali e ora è arrivato il momento di sedersi al tavolo. Cosa finirà nel testo che entrambi non vogliono chiamare contratto? Il 23 novembre scorso, un’era politica fa, Di Maio aveva dettato la sua road-map che conteneva alcuni dei pilastri del programma M5s: legge sul conflitto di interessi, legge sull’acqua pubblica, salario minimo. Sono cavalli di battaglia M5s, ma diverse sono le posizioni sul fronte Pd. Saranno messi in secondo piano? E’ presto per dirlo. Ad esempio, il centrosinistra ha detto (anche se finora non troppo convintamente) che chiede di velocizzare sulle modifiche ai decreti Sicurezza: la ministra dell’Interno le ha già preparate e si attendeva il momento migliore per iniziare la discussione. Il risultato elettorale dell’Emilia potrebbe essere la spinta giusta.
Un altro fronte di discussione è quello della legge elettorale proporzionale. Il testo è stato incardinato alla Camera e al momento si registra l’accordo di quasi tutti i membri della maggioranza. Ma al Pd conviene ancora abbandonare il maggioritario? Il dubbio ha cominciato a circolare con i primi risultati e saranno sciolti solo con il ritorno in Parlamento. Il vicesegretario Pd Andrea Orlando è stato molto chiaro fin da subito: al Pd non interessano “posti”, ma pesare sull’agenda.“E’ stato modificato l’asse politico dell’esecutivo”, ha detto. Proprio il comportamento sui dossier farà capire dove intende andare il governo. Crimi, nel frattempo, ha provato a pezzare l’irreparabile: “Ho ascoltato le parole di Conte e Zingaretti: l’idea oggi è di lavorare su progetti e sull’idea di Paese. Abbiamo un’agenda che nasce da prima di queste regionali”, ha detto,”il Parlamento è questo e dura cinque anni”. O almeno così sperano. Per Crimi la strada è quella dell’autonomia: “Non dobbiamo immaginare di replicare gli altri partiti, ma dobbiamo andare avanti pensando ai progetti”. Una posizione che fa eco a quella dei 5 stelle locali. “Ripartiamo dall’autocritica” e, ancora, “dai temi”, hanno scritto i 5 stelle di Reggio Emilia in una nota. I contenuti e le battaglie storiche sono per molti l’unica luce da seguire in queste ore così difficili.
La crisi sui territori: il Nord abbandonato, il Sud lacerato dalla faide interne
La testa è sicuramente al governo, dove i 5 stelle devono riuscire a non indietreggiare sui temi. Ma la pancia è sui territori, dove sembrano praticamente scomparsi. Inutile dire che sono stati decine gli allarmi inascoltati. Tanto per avere un punto di riferimento, in Emilia-Romagna i 5 stelle hanno perso l’80 per cento dei voti rispetto alle Politiche 2018: in termini assoluti hanno preso 102.533 voti, mentre nel 2018 erano 689.204. Meno ancora delle Europee quando ne presero 290.019. Ma non solo. Il candidato dei 5 stelle Simone Benini ha preso meno voti della sua lista fermandosi a circa 81mila consensi. Che sono ancora meno di quelli che prese Giovanni Favia, il primo storico candidato in Regione nel 2010: 161mila. Insomma l’effetto è devastante, soprattutto per l’umore e la motivazione. Di Maio, bisogna ricordarlo, non avrebbe voluto correre in nessuna delle due competizioni, ma la base ha votato per la candidatura dopo una consultazione sulla piattaforma Rousseau. Il risultato è stato un candidato emiliano, da solo davanti alle telecamere, a tarda notte, a dire che “sarebbe potuta andare peggio”. I suoi intorno negano che, quella delle Regionali, sia stata una vera sconfitta, ma piuttosto una battaglia di bandiera per non scomparire: “Però adesso, chiunque verrà dovrà puntare l’asse anche sul Nord dell’Italia. Ce lo siamo dimenticati e questi sono gli effetti”, ammettono parlando con ilfatto.it.
Al Sud, roccaforte di voti per i 5 stelle, le cose non sono andate meglio. Qui i grillini sono addirittura rimasti fuori dal consiglio regionale in Calabria. Il candidato Francesco Aiello, osteggiato da parte della base perché aveva un cugino affiliato alla ‘ndrangheta, non solo è arrivato ben quarto dietro un altro candidato civico, ma non avendo superato la soglia di sbarramento dell’8 per cento, nessun consigliere M5s è riuscito a essere eletto. Tra i primi a sottolineare quello che è stato un fallimento su tutta la linea è stato uno dei pezzi grossi del Movimento, almeno sulla carta: il presidente della commissione Antimafia Nicola Morra. “Su tre circoscrizioni la soglia di sbarramento è stata raggiunta solo in una, la Calabria centrale”, ha detto. “Non dobbiamo più arrivare così impreparati”. Facile a dirsi ora, mentre nei mesi scorsi ha regnato il caos, tra autocandidature e faide locali. Morale: se vogliono rifondarsi i 5 stelle dovranno fare ordine anche su questo punto.
La ricerca disperata di una leadership per riempire il vuoto di Di Maio
Il problema reale e più urgente, inutile girarci intorno, è avere un capo che sostituisca Luigi Di Maio. Le dimissioni del leader hanno lasciato un vuoto che il reggente Crimi, seppur già calato nella parte, non può riempire da solo. Manca la legittimazione e una discussione chiara su chi e come dovrà prendere il potere dentro il Movimento 5 stelle. Mai come nei momenti della sconfitta si sente l’assenza di un capo: serve qualcuno che ci metta la faccia e assicuri ai suoi che in qualche modo sapranno risollevarsi. Anche perché l’alternativa è lasciare piede libero a chi si lamenta. Il primo esempio, il caso zero, è stato Max Bugani: l’ex consigliere comunale di Bologna, ora capo staff di Virginia Raggi e tra i più accesi sostenitori del ritiro dalle elezioni Regionali. Si è presentato in tv di prima mattina per ribadire il suo “ve l’avevo detto”. Un gesto non molto apprezzato dai vertici “provvisori” del M5s: “Basta con le prime donne”, hanno commentato. E’ stato l’ennesimo round di una partita che si preannuncia molto lunga.
Intanto chi ha iniziato già a parlare in modo più istituzionale, quasi facesse le prove da leader, è stata Chiara Appendino: “Il voto in Emilia”, ha dichiarato la sindaca di Torino più volte entrata nel totonomi per i successori di Di Maio, “dimostra che i fatti possono fare la differenza”. Per il Movimento 5 stelle il voto in Emilia Romagna “è un po’ il risultato di un movimento che non ha più fiducia in sé stesso. È da lì che dobbiamo ripartire, nel senso che dobbiamo ritrovare l’orgoglio di appartenere alla comunità del Movimento ritrovandoci sui temi che ci uniscono”. Suona già come un discorso di incoronazione per guidare il M5s. Anche se una delle opzioni che si fa sempre più insistente è che si recuperi l’opzione del collegio democraticamente eletto senza un vero e unico leader: sarebbe il modo per far tornare Alessandro Di Battista e permettere a Di Maio di continuare ad avere influenza senza avere un nome che prende il suo posto. “E’ presto, è presto”, dicono nei corridoi. Il ritornello lo si conosce a memoria: “Bisogna aspettare gli Stati generali di marzo”. Eppure il già famoso weekend del 12-15 marzo, alla luce di queste Regionali, sembra lontanissimo e nel mezzo può succedere di tutto. E di fronte a quel tutto, il M5s dovrà dimostrare di avere, se non altro, la forza di difendere quello che ha ottenuto finora.