Musica

Il sessismo in musica esiste e la qualità ne risente. Ecco cinque luoghi comuni da sfatare

Quello del sessismo è certamente il tema caldo del momento: oltre infatti ad aver caratterizzato il grosso delle polemiche sorte intorno alla prossima edizione del Festival di Sanremo, il tema è stato già trattato da Daniele Silvestri nel brano Blitz gerontoiatrico; ne ha poi parlato in modo assolutamente lucido Grazia Di Michele in alcuni recenti articoli pubblicati sulle pagine di Optimagazine; ne ha fatto addirittura apertura di puntata Massimo Giletti nella sua Arena su La7, ospitando tra gli altri un combattivo Red Ronnie che su questo tema ha profuso ogni sua energia.

Io, che sul tema del sessismo musicale ho scritto in tempi assolutamente non sospetti, sono tornato sull’argomento qualche giorno fa in luogo di una piacevole chiacchierata con Giustina Terenzi su Controradio, collegando la deriva sessista al tema della deflazione musicale.

Già, perché la deflazione è in economia quel processo per cui la riduzione dei prezzi si ripercuote negativamente per le imprese sui ricavi, col conseguente tentativo delle imprese stesse di ridurre il costo del lavoro. Dall’avvento dello streaming la musica non vende più come un tempo, e i ricavi sono ridicoli se paragonati a quelli a cui si era abituati fino a una ventina di anni fa. Un qualsiasi disco pop di metà anni Novanta o primi Duemila poteva costare cifre astronomiche, e questo perché si aveva la consapevolezza che gli incassi, grazie alla vendita dei cd fisici, avrebbero di gran lunga superato i costi di produzione.

Ciò significava, in buona sostanza, poter coinvolgere i migliori musicisti esistenti, ingegneri del suono e tecnici di prim’ordine, oltre che i migliori cantanti e autori possibili. Costi, al giorno d’oggi, assolutamente impensabili: chi produce musica ha dunque iniziato da tempo a delocalizzare, spostando cioè la produzione su “artisti” che costano infinitamente meno di altri. Ne deriva una sorta di discount musicale che però ci costa moltissimo in termini qualitativi e contenutistici, dunque poetici, un po’ come quando dal prestigioso Made in Italy si passa al Made in China.

Ma andiamo ora a sciogliere i più diffusi luoghi comuni in difesa della narrazione sessista.

1) “Anche Tizio, Caio o Sempronio hanno dato della troia a una ragazza in una loro canzone”, è stato più volte detto. Ebbene, tirare sempre in mezzo le cadute di stile altrui per giustificare una sistematica operazione di violenza nei confronti delle donne, perché trattasi di operazione sistematica e non di casi isolati, è tipica, psicologicamente parlando, dell’età infantile, ossia di quei bambini che, trovati a combinarla grossa, tirano in mezzo qualcun altro al fine di spostare l’attenzione e non prendersi le proprie responsabilità.

È un grosso problema dunque quando simili atteggiamenti giungono da persone adulte, gente che dovrebbe saper rispondere delle proprie azioni senza fare ogni volta lo scaricabarile e usare come parafulmini i grandi nomi del passato. A ogni buon conto certe espressioni, prive di rispetto verso chicchessia, restano sempre da condannare, da chiunque esse giungano.

2) “Non offendiamo tutte le donne – è stato detto – ma solo quelle che si meritano di essere chiamate troie”, e già la cosa farebbe accapponare la pelle così. Ma siccome abbiamo sempre voglia di argomentare, pongo una semplicissima domanda: chi, di grazia, può dirsi giudice delle libertà sessuali altrui? Chi può stabilire entro quali limiti una donna sia angelo del focolare e dopo quali altri diventi immediatamente troia? Ebbene, questo genere di sudicia retorica non fa che riportarci a tempi bui, e Dio o chi per lui ce ne scampi.

3) “La musica è finzione, proprio come nei film”: il cantante o band di turno fingerebbero dunque di essere chi in realtà non sono. Peccato però che la musica, finanche quella cantata, non sia per definizione stessa arte scenica: “Nelle canzoni – ha giustamente osservato un’ascoltatrice di Controradio – si può parlare di stupro, violenza, omicidio, purché l’intenzione sia narrativa e non indottrinante. Per intendersi: ‘L’ho ammazzata, le ho strappato la borsa, c’ho rivestito la maschera’ è ben diverso da ‘Ho sentito la storia di un matto che ha ucciso una ragazza e della sua borsa ne ha fatto una maschera’”. Troppo facile raffigurare le donne come bestie meritevoli di qualsivoglia genere di abuso, violenza o perversione maschili e dopo, come se niente fosse, rispondere alle accuse asserendo fosse tutta finzione. Di certi messaggi, come di qualsiasi messaggio, occorre avere il coraggio di assumersi la responsabilità.

4) “Anche Medea ed Edipo mettono in scena un infanticidio e un incesto”. Peccato però che sia la prima sia il secondo, così come ogni mito, fiaba o leggenda, siano dotati di una loro morale. Nel caso di certi rapper e trapper non vi è invece alcuna morale finale, alcun insegnamento: nella loro narrazione loro vincono sempre, e vincono non in quanto più intelligenti, capaci o abili degli altri, ma semplicisticamente in quanto più violenti e autocelebrativi, in una pericolosissima gara nella quale, a ben vedere, ci perdiamo tutti.

5) “Si limitano a descrivere la realtà che li circonda, ne sono rappresentazione”. Ebbene, occorre osservare a riguardo che ogni singolo periodo storico è stato pieno di schifezze inenarrabili, ma essere rappresentazione o figli del proprio tempo non significa farsi indefessi promotori delle sue più abiette manifestazioni, ma avere la capacità di elaborarle con ragion critica, trovando soluzioni possibili ai mali che attanagliano il proprio tempo.

Occorre, in chiusura, ricordare come il successo non sia di per sé garanzia di qualità, e c’è chi con la spazzatura riesce a farci i milioni. Le ecomafie, da questo punto di vista, ne sono un esempio, ma la spazzatura che trattano, anche se motore di incredibili giri economici, spazzatura resta.

È il caso di chiudere con le parole raccolte in rete da un altro dei protagonisti di Controradio, Giuseppe Barone, utili a fare un definitivo punto della situazione e rispondere al falso mito della libertà d’espressione (come se la stessa non avesse dei precisi limiti e non imponesse dunque dei doveri): “Allora facciamo così: sostituiamo a Gioia che fa la troia un Lucio che è frocio, un Pedro che è negro o un Matteo che è ebreo. Fanno tutti la stessa fine di Gioia. Vediamo se il ragionamento regge.”