Nelle carte dell’inchiesta che ha portato in carcere l’ex consigliera regionale del Pdl e il marito Umberto Pagliaroli, viene raccontata la battaglia fra clan per l’affissione dei manifesti elettorali a Terracina alle comunali del 2016. Il collaboratore di giustizia: "Noi avevamo preso l’appalto da Gina Cetrone. La stessa si era lamentata perché la visualizzazione". Il vertice allo stadio tra i gruppi: "Si stabilì che tutta la politica sarebbe stata nostra"
“Fateve il lavoro vostro e noi ci famo il nostro, non mi coprite Gina Cetrone sennò succede un casino”. Nelle carte dell’inchiesta che ha portato all’arresto dell’ex consigliera regionale del Pdl nel Lazio, Gina Cetrone – recentemente passata al movimento di Giovanni Toti ‘Cambiamo!’ dopo la scissione da Forza Italia – e di suo marito Umberto Pagliaroli, viene raccontata la battaglia fra clan per l’affissione dei manifesti elettorali nella città di Terracina, nota località in provincia di Latina, territorio roccaforte del clan degli “zingari” Di Silvio, chiamati così per le loro origini sinti che li accomuna ai più noti Casamonica e Spada. I componenti del “gruppo criminale”, come viene definito dagli inquirenti, appaiono anche in alcuni post su Facebook pubblicati sulla pagina elettorale di Cetrone e allegati alle carte del gip di Latina nell’ordinanza di custodia cautelare. Cetrone e Pagliaroli, secondi gli inquirenti, si sono rivelati “soggetti scaltri e pericolosi”. Non solo per la vicenda del recupero crediti nei confronti di un imprenditore abruzzese, che sarebbe stato minacciato dai Di Silvio.
Il patto per l’attacchinaggio alle elezioni 2016
“Era di dominio pubblico come la campagna elettorale di Gina Cetrone era sostenuta dagli zingari”. Le elezioni sono quelle del 2016. Cetrone è candidata al consiglio comunale della cittadina pontina e sostiene uno dei due candidati sindaci di centrodestra, Gianluca Corradini. Suoi “rivali” principali sono Gianni D’Amico, candidato consigliere di Forza Italia, e Nicola Procaccini, fedelissimo di Giorgia Meloni, attuale sindaco di Terracina (eletto proprio nel 2016) e, nel 2019, divenuto parlamentare europeo sempre per Fratelli d’Italia. Agostino Riccardo, collaboratore di giustizia e uno degli affiliati al clan coinvolti, secondo gli inquirenti, da Cetrone e Pagliaroli nel recupero crediti e nelle vicende politiche, nel 2018 rilasciava queste dichiarazioni: “Noi avevamo preso l’appalto da Gina Cetrone. La stessa si era lamentata perché la sua visualizzazione non era buona, non si vedeva abbastanza nei manifesti di Terracina, io a mia volta mi lamentavo tramite Pugliese (Renato, altro collaboratore di giustizia, ndr) con i nostri attacchini”. La Cetrone, a quanto ricorda Riccardo, “disse che nella campagna elettorale voleva essere vista solo lei, non le interessavano le sanzioni per le eventuali affissioni relative ai ‘fuori bandoni’, ovvero i muri, i ponti o le saracinesche dei negozi abbandonati (…) L’intero pacchetto venne chiuso complessivamente a 25mila euro”. La sicurezza, era che “nessuno, sapendo che siamo i Di Silvio, poteva attaccare i manifesti sul nostro candidato”.
La “guerra” sfiorata tra clan e il vertice criminale allo stadio
Nell’ordinanza di custodia cautelare, si racconta un episodio successivo all’affidamento ai D’Amico della campagna elettorale della Cetrone. “Prima della campagna elettorale di Latina e Terracina – racconta Riccardo – venni avvicinato da Sabatino Morelli, detto ‘Manolo’, che mi disse di lasciar stare la campagna di Gina Cetrone perché doveva farla Francesco Viola e che i cognati Angelo Travali, Salvatore e Angelo Morelli detto Calo, erano detenuti”. Riccardo racconta di un incontro allo stadio di Latina: “Eravamo presenti io, Armando Di Silvio, Ferdinando Di Silvio, Renato Pugliese e Sabatino Morelli”. Nella riunione seguente “si stabilì che tutta la politica sarebbe stata nostra, i profitti sarebbero stati divisi coni figli ed una quota finale sarebbe spettata ad Armando”. Renato Pugliese aggiuse che “Sabatino Morelli si è occupato della campagna elettorale per Tripodi (Orlando, attuale consigliere regionale della Lega, ndr)” e che “ricordo che litigammo anche per Viola e Morelli mandarono a dire a me e a Riccardo che la campagna elettorale per Gina Cetrone la dovevano fare loro”. Successivamente, nel tentativo di rintracciare chi stava coprendo i manifesti della sua candidata, Riccardo contatta Genny Marano, giovane rampollo del clan casalese dei Licciardi, da tempo trasferitosi a Terracina. “Genny Marano me lo presentò Angelo Travali – racconta Riccardo – nel 2014. Travali aveva a che fare con loro a livello di droga e Genny Marano diede un contatto a Travali di una persona di Fondi, proprietario del Conad di Sabotino, per la vendita della droga”.
La caccia agli “attacchini” rivali: le minacce e poi l’accordo
“Alla Fiora tutto D’Amico, questo sta a rompe er cazzo sta”. Secondo i dati raccolti dagli inquirenti, le azioni di Riccardo e Pugliese arrivano direttamente dagli ordini perentori di Gina Cetrone e di suo marito Umberto Pagliaroli. “Pagliaroli – scrivono i pm di Latina – esplicitamente chiedeva a Agostino Riccardo di intervenire ‘con i suoi modi’ nei confronti di Gianluca D’Amico, in occasione dell’evento elettorale dell’allora candidata Cetrone”. In un sms del 29 maggio 2016, Pagliaroli si rivolge così a Riccardo: “Buongiorno, me so rotto il cazzo de sto D’Amico, sta attaccando tutto lui su Gina e cartelloni assegnati a noi, non voglio più accordi quindi fai il lavoro”. Gianluca è figlio di Gianni D’Amico, l’altro candidato di centrodestra. “Lui mi rispose con arroganza e prepotenza – racconta agli investigatori – che loro erano gli zingari di Latina e per questo dovevamo lasciarli stare. Ad alta voce Agostino Riccardo ribadì davanti a tutti che comandavano loro”. Raggiunti toni più concilianti, D’Amico ottenne che i manifesti del padre, affissi fuori l’area del centro, non venissero più toccati. Accordo simile raggiunto con Matteo Lombardi, deceduto nel 2018, che si occupava dell’affissione dei manifesti per Procaccini: “Gli abbiamo detto – racconta Riccardo – che sulla via principale dovevamo attaccare solo i manifesti della Cetrone, in altre zone potevano attaccare i loro”. Non solo: “Ci siamo quindi intesi e in qualche caso abbiamo anche attaccato i suoi manifesti tra cui quelli di Procaccini e Zicchieri (Francesco, dirigente provinciale della Lega), però non nella zona centrale della città, dove potevano stare solo i manifesti della Cetrone”.