L’appello apparso su Change.org relativo alla tutela delle foreste italiane, cui ho dato spazio condividendone i principi conservazionisti, ha suscitato una replica da parte dei professori Renzo Motta e Giorgio Vacchiano. A questa, per completezza, hanno ritenuto di controreplicare gli estensori della petizione nella persona del dr. Marco Clericuzio dell’Università del Piemonte Orientale e dello scrittore Diego Infante. Ospito di seguito le loro note.
Non vi è alcun dubbio sul fatto che la superficie forestale italiana è quasi triplicata nell’ultimo secolo, ma ciò è al di fuori della discussione in oggetto: in linea di massima, il tanto sbandierato aumento del bosco non è dovuto a una qualche iniziativa di tipo conservazionista, ma al declino delle attività agro-silvo-pastorali. Non va dimenticato, inoltre, che prendere il primo 900 come termine di paragone significa far riferimento al periodo più cupo per il patrimonio boschivo nazionale.
Pertanto, nonostante l’indiscutibile ripresa, siamo ben lontani dalla ricostituzione di foreste mature, per le quali occorrono non meno di 70-80 anni. Purtroppo le statistiche forestali considerano “bosco” una superficie che abbia “alberi” anche solo di limitata altezza. Ecco la questione di fondo: si parla tanto di quantità di bosco, senza fare minimamente menzione alla qualità del medesimo.
Qualunque persona si occupi di ecologia forestale sa bene che i boschi di gran lunga più importanti sono quelli vetusti. Purtroppo in Italia ne abbiamo una superficie irrisoria, e comunque non disponiamo di un inventario nazionale. La stragrande maggioranza dei boschi italiani è gestita a ceduo, viene quindi regolarmente tagliata ogni 13-20 anni. Un bosco ceduo è un ecosistema assai povero dal punto di vista ecologico: nel momento in cui inizia a maturare, e quindi ad assomigliare a un bosco vero, viene nuovamente tagliato.
L’affermazione secondo cui “nessuna legislazione forestale nazionale, regionale o provinciale contiene alcun riferimento ad una priorità degli aspetti produttivi” si scontra con la realtà dei fatti: le varie leggi regionali, e ultimamente la legge nazionale nota come “Tuff” (Testo unico in materia di foreste e filiere forestali), si occupano essenzialmente del taglio dei boschi. Certo, vi sono alcune belle parole sul valore ecologico delle foreste, ma il grosso del testo riguarda le attività selvicolturali. Vogliamo sostenere che il taglio non venga fatto per ragioni economiche?
Nei rilievi mossi, si fa altresì riferimento al fatto che noi italiani abbiamo un “basso rapporto tra legno prelevato e accrescimento delle foreste (21%)”; e ciò non può che essere positivo. Tuttavia, come risulta dai dati storici del bilancio energetico del Mise, la produzione e l’importazione di legna da ardere, altro materiale legnoso e sottoprodotti sono in forte crescita sin dal 2001.
Il problema è che nel nostro Paese vige una totale anarchia sulle utilizzazioni boschive. Se le foreste italiane vantano gli strabilianti livelli di tutela menzionati, perché si taglia in zone soggette a vincolo? Visto che ultimamente si è tagliato pesantemente anche in aree sottoposte a tutela, possiamo ben dire che si tratta di vincoli solo sulla carta. Esempi: Valle del Farma-Merse in Toscana, Riserva del Lago di Vico e Riserva del Litorale Romano nel Lazio. Nessuno di noi sostiene che il bosco non vada tagliato, ma semplicemente che si debba ottimizzare il rapporto tra bosco ceduo e quello ad alto fusto, che oggi è molto sbilanciato a favore del primo.
Si dovrebbe inoltre stabilire che una certa percentuale dei boschi italiani venga lasciata all’evoluzione naturale: per ora questa percentuale è minima. Perché non si fa una legge nazionale di questo tipo, con relativa individuazione dei siti da proteggere realmente regione per regione? Il Prof. Franco Pedrotti ha recentemente stigmatizzato il Protocollo d’intesa siglato tra FederlegnoArredo e Federparchi, spiegando in cosa dovrebbe consistere la gestione forestale delle aree protette: autentica conservazione e non certo “sviluppo eco-compatibile” (da intendersi ovviamente come utilizzazione del patrimonio boschivo).
Sostenere poi che con l’aumento dei tagli in Italia o in Europa si andrebbe ad alleviare la tragica situazione forestale del Borneo, dell’Africa Centrale o dell’Amazzonia è quantomeno ingenuo. Sarebbe il caso di ricordare che dalle foreste tropicali arrivano legni di alto pregio come mogano e teak, mentre la stragrande maggioranza del legno tagliato in Italia è usato come combustibile: non è certo possibile sostituire il mogano con il cerro o la roverella.
Per ultimo, gli autori paventano la possibilità di incendi nelle zone di contatto tra aree abitate e boschi, ma c’è da dire che la stragrande maggioranza di questi ultimi è ben distante dalle aree urbane. Inoltre sono assai più suscettibili di cadere preda delle fiamme le aree arbustive e i boschi giovani rispetto alle foreste mature, soprattutto se si conserva il loro sottobosco naturale, che trattiene l’umidità anche in periodi asciutti.