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Trump vuole trasformare la Palestina in uno ‘Stato-ghetto’. E anche la Chiesa gli è contro

C’è qualcosa di geniale nel piano Kushner-Trump presentato l’altro giorno a Washington. Il principio “due popoli, due Stati” viene affermato come slogan e al tempo stesso spazzato via dalla scena, perché presupporrebbe un trattamento paritario almeno nelle sue linee generali. Non c’è bisogno di essere esperti un po’ filoisraeliani o un po’ filopalestinesi, non c’è bisogno di essere equidistanti o equivicini. Basta guardare la carta geografica e la mappa della proposta.

Jared Kushner, genero del presidente statunitense, e Donald Trump hanno inventato lo “Stato-ghetto”. La Palestina non starà più “accanto” a Israele. Come tutti i ghetti della storia sarà circondato da muri e filo spinato. Perché il governo israeliano viene autorizzato a impadronirsi della Valle del Giordano. Circonderà la Cisgiordania, avrà il controllo dei suoi confini e del suo spazio aereo. Naturalmente i palestinesi dovranno essere smilitarizzati, come è sempre avvenuto con i popoli sottoposti a una potenza dominante.

C’è però nel piano Kushner-Trump un dettaglio creativo in più. Nei ghetti gli individui sottomessi stanno almeno tra di loro. Nell’entità palestinese immaginata a Washington, il territorio è invece costellato di insediamenti israeliani, vigilati armi alla mano: una “gruviera”, come aveva previsto con lungimiranza un quarto di secolo fa il segretario di Stato vaticano, cardinale Angelo Sodano.

C’è anche un profumo di “pulizia etnica” nel piano di Trump e del suo genero Kushner, notoriamente legato al movimento dei coloni. La proposta, riferisce il Corriere della Sera, “arriva ad immaginare un trasferimento di popolazione: le comunità di cittadini arabi israeliani nel nord del Paese potrebbero essere inglobate nello stato di Palestina”. Ipotesi da concordare, è scritto nel testo.

Per aggiungere beffa al cinismo, Trump si dichiara pronto a garantire, come compensazione, qualche manciata di ettari di pura sabbia a sud di Gaza. Inutile dire che, dopo quasi millecinquecento anni, gli arabi vengono sfrattati definitivamente da Gerusalemme. In termini reali lo Stato israeliano si annette il 40% (ma, con le colonie ebraiche a macchia di leopardo, secondo alcuni calcoli potrebbe arrivare a due terzi) del territorio che appartiene alla Palestina.

Il premier Benjamin Netanyahu è già pronto a portare in Parlamento la legge per l’annessione ufficiale della Valle del Giordano e di tutte le colonie ebraiche illegali create nel corso degli ultimi decenni. In questa storia è l’unico coerente. Ha sempre promesso ai suoi elettori di non permettere la nascita di uno stato palestinese. Ha degradato gli arabo-israeliani a cittadini di seconda categoria, togliendo all’arabo lo status di lingua ufficiale. Ha favorito sistematicamente l’espandersi degli insediamenti illegali.

“È la loro ultima occasione”, ha dichiarato il presidente degli Stati Uniti rivolto ai palestinesi. “È quasi un ultimatum”, nota il giornale dei vescovi Avvenire. A sua volta l’Osservatore Romano chiude un articolo di asciutta cronaca con la posizione dell’Onu che rispecchia la linea storica del Vaticano: “il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, si è detto pronto ad aiutare gli israeliani e i palestinesi a giungere a una pace che rispetti le risoluzioni dell’Onu, il diritto internazionale, gli accordi bilaterali e la visione dei due Stati sulla base dei confini precedenti il 1967”.

I vescovi cattolici di Terrasanta sottolineano in un comunicato che la soluzione del problema israelo-palestinese può venire soltanto da un accordo negoziale tra i due popoli in base a “proposte fondate su eguali diritti e patri dignità”. L’iniziativa di Trump, afferma l’episcopato cattolico di Terrasanta, “non contiene alcuna di queste condizioni. Esso non garantisce dignità e diritti ai palestinesi… va considerata come una iniziativa unilaterale, che avalla tulle le pretese di una parte, quella israeliana, e la sua agenda politica”.

Il fatto è che le mappe degli Accordi di Oslo, in cui sono segnati i vari gradi di presenza delle forze di occupazione israeliane in territorio palestinese, in nessun paragrafo definiscono questi territori disponibili a un’annessione da parte di Israele.

Rispetto alla posizione netta della comunità internazionale, che non ha mai riconosciuto i colpi di mano territoriali attuati dai governi della destra nazionalista e fondamentalista israeliana ed è stata sempre ferma nel ribadire che gli unici confini legali sono quelli del 1967, il piano Kushner-Trump è talmente cinico e dal sapore di diktat che molti commenti in queste ore esprimono balbettamenti.

Come se la maggioranza degli osservatori fosse spiazzata dalla brutalità di uno smembramento della Palestina, che lascerebbe ai palestinesi un’entità a brandelli. Ci si rifugia nel puntare il riflettore sulle ovvie proteste palestinesi.

Ma il punto non è questo. I palestinesi, si sa, sono deboli. Il mondo arabo è diviso. Negli ultimi vent’anni l’espansionismo della destra israeliana non ha trovato barriere. Anche il centrista Benny Gantz considera il progetto presentato da Trump “completamente in linea con i principi politici e di sicurezza del nostro partito”.

Il punto sta in una domanda di base: in nome di quale principio, valore o privilegio i dirigenti di uno Stato, che ha l’arma atomica e un esercito tra i più forti del mondo, sarebbero autorizzati a calpestare il diritto di un altro popolo ad avere la propria terra e un proprio Stato sovrano secondo le frontiere riconosciute internazionalmente?

È la domanda che sta oggi dinanzi all’Europa. Il ministro degli esteri dell’Unione Europea, Josep Borrell, ha ribadito l’impegno a lavorare per la “soluzione dei due stati”, affermando che avverrà “sulla base delle posizioni assunte dell’Ue”. Parole molto generiche. Il premier britannico Boris Johnson, accodandosi a Trump, ha già definito il piano un passo avanti.

È una domanda che si deve porre anche la diaspora ebraica, questa linfa colta e vivificante che ha fecondato attraverso la storia tante nazioni occidentali e dello stesso mondo arabo. Coprire con il silenzio una ingiustizia storica può rivelarsi un tragico errore. Possono passare decenni, ma chi semina vento prima o poi raccoglie tempesta.