Tutti abbiamo sentito, nei vari confronti che ci vengono offerti quotidianamente dai “salotti” politici televisivi, molti politici, anche di alto livello, snocciolare dati economici con sicurezza sostenendo infine con incrollabile sicumera che “le cifre non mentono”.

Le cifre, è vero, non mentono, ma solo se si rimane nell’ambito della matematica. Ma quando si passa a parlare di economia, la musica cambia. L’economia si basa sulla “ragioneria” (e molto altro), dove, nello Stato patrimoniale di un bilancio, le cifre dell’attivo pareggiano sempre con quelle del passivo. Ma mentre nell’attivo ci stanno i valori delle proprietà fisiche o immateriali e i crediti verso soggetti terzi, al passivo ci stanno tutti i debiti e il capitale proprio.

È il metodo della “partita doppia” che ha dato origine alla ragioneria ed è nato proprio in Italia (attorno al 1400, sembra a opera di un frate, tale Luca Pacioli) ed è usato ancora oggi in tutto il mondo proprio per consentire di dare alle semplici cifre un significato più profondo e, sperabilmente, veritiero. Dipende da come vengono “raccontate” quelle cifre.

Questo preambolo serve a spiegare brevemente come sia facile il disaccordo tra due o più soggetti quando l’oggetto della discussione è un dato economico rappresentato da un bilancio, o da un insieme di bilanci, o addirittura da previsioni economiche di medio o lungo periodo. Per quanto le tecniche di analisi possano essere complesse o profonde, ci può sempre essere qualcuno che, con la dovuta competenza (matematica e/o finanziaria), avrà proprietà per contestare legittimamente quanto da altri sostenuto.

E qui arriviamo al centro della discussione sui dati economici vantati da Donald Trump a sostegno della sua politica. Lui vanta risultati apparentemente incontestabili: il boom della borsa (Wall Street ha “stracciato” tutti i record precedenti di continua crescita nei maggiori indicatori di borsa), l’indice nazionale della disoccupazione è sceso sotto al 4% (non si vedeva dagli anni 70) e l’inflazione è poco sopra al 2%, un valore ottimale!

E allora, perché alcuni tra i maggiori economisti al mondo lo contestano? Per esempio ce n’è uno che afferma: “Neither GDP nor the Dow is a good measure of economic performance” (né il Pil né il Dow Jones sono buoni indicatori per i risultati economici). Lo dicesse uno qualunque gli rideremmo in faccia! Non è solo il presidente Trump a citare quegli indicatori come espliciti riferimenti dell’ottimo stato dell’economia, ma anche la gran parte dei giornalisti sulle pagine economiche dei migliori quotidiani.

Come mai allora una discrepanza così evidente? Beh, intanto a dirlo è Joseph Stiglitz, uno che non ha bisogno di presentazioni, essendo stato premiato anche col Nobel dell’Economia e avendo ricoperto cariche di altissimo livello in diverse istituzioni a livello mondiale.

Nell’articolo linkato qui sopra spiega che il Pil e il Dow Jones sono indicatori tecnici per gli addetti ai lavori e che i veri indicatori per ogni economia nazionale sono lo stato del benessere diffuso che c’è nella nazione e lo stato generale della salute dei cittadini. E nel dire questo cita il premio Nobel 2015 per l’economia: Angus Deaton.

Entrambi sostengono (a ragione!) che non è corretto sostenere la buona salute di una nazione mentre altri importanti indicatori, come quello dell’aspettativa di vita e delle nascite (negli Usa), sono da anni in preoccupante discesa senza che Trump se ne preoccupi. E quando, come dice Deaton, nessuno si accorge che nel paese, insieme al Pil e al Dow Jones, cresce anche l’indice della disperazione, quello della gente che muore di overdose o alcolizzata, o che si suicida per far prima (Vedasi articolo di Bloomberg: Los Angeles, da sola, conta 59mila senza tetto. Gente costretta a vivere accampata nei parchi).

Ormai sappiamo bene dove va a finire tutta la ricchezza prodotta dal boom dei record di crescita che dura ormai da dieci anni. Ed è proprio un altro premio Nobel Economia, Paul Krugman, a denunciarlo sul New York Times dicendolo in maniera netta e chiara nell’articolo del 26 dicembre scorso dove mette in evidenza il grande potere dei soldi e i dieci anni persi dal governo dell’America: “Big money and America’s lost decade”.

Krugman mette in evidenza non solo l’avidità e asocialità della gran parte dei ricconi d’America, ma anche la loro abilità (e crudeltà, unita a falsità e pessimo spirito democratico) nel sostenere con le loro ingenti fortune solo (o soprattutto) i politici che si prestano meglio a “non dar fastidio”.

I grandi ricchi, dice Krugman, sono molto diversi da me e voi: loro (Trump incluso) sono ossessionati dalla paura di perdere la loro ricchezza (ma forse anche solo di essere superati nella speciale classifica dei miliardari). Quindi il loro maggiore interesse è rivolto sempre a “tagliare le tasse, ignorare i danni ambientali, eliminare ogni regola che imbriglia la finanza”. Qualunque candidato politico che non si adegui a queste priorità, non prenderà da loro nemmeno un dollaro.

È proprio così. Benché sia noto a tutti, per esempio, che a livello popolare non ci sia grande amore verso le spericolate operazioni che fanno le grandi banche (che poi distribuiscono principesche retribuzioni e bonus ai managers), i ricconi generalmente se ne infischiano dei valori descritti da Stiglitz, Deaton e Krugman: loro fanno a gara ormai tra di loro a chi arriva in alto nella classifica dei centenari.

No, non centenari di età: loro competono solo a chi sale in testa alla classifica dei più ricchi, dove ormai è necessario superare la barriera dei cento miliardi di capitalizzazione personale per primeggiare. In due ci sono già arrivati (Jeff Bezos e Bill Gates), gli altri sono in corsa (ma attenti ai cinesi).

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