Il gong era fissato per oggi, ma la realtà è che si tratterà fino all’ultimo minuto disponibile per provare a sostanziare quella bozza di 5 pagine ancora troppo fumosa per garantire un via libera al proseguimento del negoziato sull’ex Ilva. Tuttavia molto ‘non detto’ sullo stato dell’arte dell’accordo tra Stato e ArcelorMittal lo si comprenderà dal tenore delle controrepliche che la multinazionale depositerà in serata al Tribunale di Milano nell’ambito del ricorso d’urgenza presentato dai commissari a novembre, dopo l’annuncio dell’addio fatto dai franco-indiani.

Certo, le carte – viste le parole di fuoco messe nero su bianco da parte dei legali di Ilva in amministrazione straordinaria – difficilmente saranno ‘soft’, anche perché se l’intesa non dovesse essere raggiunta il 7 febbraio si discuterà in udienza e le armi di ArcelorMittal, accusata di fare “capitalismo d’assalto” e di raccontare “conclamate falsità” sullo scudo penale, non potranno essere spuntate. Eppure la multinazionale dell’acciaio ha già dimostrato aperture nei confronti della controparte: il 31 gennaio era, in teoria, l’ultimo giorno utile stabilito dal protocollo di massima, firmato dai commissari e dall’ad Lucia Morselli in tribunale lo scorso 20 dicembre, per raggiungere un accordo in grado di garantire la continuità produttiva dello stabilimento di Taranto.

Ma non sarà così per volontà di tutti. Su esuberi, partecipazione statale, ingresso di banche nell’equity non c’è un accordo pieno, ma nessuno vuole rompere e rimettere il futuro dell’Ilva nelle mani del giudice Claudio Marangoni. Quindi si continuerà a trattare anche durante la prossima settimana, quando è possibile che il premier Giuseppe Conte e Lakshmi Mittal, ceo di ArcelorMittal, si parlino faccia a faccia. Da parte del magnate indiano “c’è disponibilità”, ha rivelato il presidente del Consiglio giovedì pomeriggio. Ma dopo due mesi di confronto finora infruttuoso al di là di generiche intenzioni potrebbe anche non bastare.

Se tutti si dicono d’accordo su un’Ilva più green, capace di produrre con forni elettrici, sostenuta da nuovi investitori e con una pianta organica più snella, è sul ‘quantum’ che manca l’intesa. In particolare sul numero di lavoratori che ArcelorMittal dovrà impiegare una volta a regime nel 2023. La multinazionale ne vuole 3mila in meno degli attuali 10.700, lo Stato spinge verso un’uscita temporanea sostenuta dalla cassa integrazione e il reintegro totale fra tre anni. È questo il punto che deciderà davvero se sarà stretta di mano o lotta in aula di tribunale.

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