A Gibilterra un moderno monumento in bronzo rappresenta le Colonne d’Ercole, l’estremo confine del mondo conosciuto secondo la letteratura classica.

Oggi questo lembo di terra, una rocca geograficamente integrata nella regione meridionale dell’Andalusia, vive nell’assoluta incertezza.

Non è la prima volta che succede nella storia del Peñón, come viene definito il promontorio dagli spagnoli, a ben vedere è questo un destino condiviso con altri fazzoletti di terra dove i criteri della geografia non collimano esattamente con le logiche della politica.

La stessa Gibilterra guarda Ceuta sull’altra sponda del Mediterraneo. Altro enclave – stavolta spagnolo – relegato in uno spazio piccolo, quasi angusto, circondato da filo spinato, dagli sguardi diffidenti dei vicini marocchini e da antiche rivendicazioni politiche.

Gibilterra da sempre conosce le asperità della diplomazia internazionale, vecchie ‘ruggini’ con la Spagna, acuitesi nel giugno del 1969 – in pieno regime franchista – portarono alla chiusura della frontiera terrestre, dello spazio aereo e al blocco delle telecomunicazioni. Una scelta politica dolorosa che si protrasse per ben 13 anni, con conseguenze pesanti per i lavoratori transfrontalieri e per l’intera economia dell’area, un episodio richiamato alla memoria pochi giorni fa da Joseph García, viceministro dell’esecutivo del promontorio, nel corso di un suo intervento a New York alle Nazioni Unite.

“Possiamo sopportarlo, Franco” [We Can Take It, Franco], annunciava a carattere cubitali in quei giorni caldi del ’69 il foglio Gibraltar Evening Post.

Quel titolo fu una sorta di profezia, Gibilterra è sopravvissuta all’isolamento e al regime franchista, ora la sfida sarà resistere alla Brexit che sta per consumarsi. Magari navigando a vista, in una condizione di rinnovata incertezza, proprio come è abituata a fare, incatenata com’è, sin dal 1946, ad uno status giuridico singolare (‘Territorio non autonomo’) cristallizzato in una lista dell’Onu, in compagnia di 17 ex colonie, tra esse le isole Falkland e il Sahara Occidentale. Una cornice troppo stretta e ambigua, che non piace al viceministro García il quale nella riunione dinanzi alla Quarta Commissione ha chiesto a gran voce all’Onu di superare lo status quo “perché così Gibilterra è come se non esistesse”.

Il promontorio vive in un limbo, reagisce con irritazione quando viene qualificata come ‘colonia’, sarebbe l’ultima presente in Europa, e deve subire ora una Brexit che ha provato ad osteggiare nel referendum del 2016 quando il 96% degli abitanti del Peñón – gli unici ad avere diritto di voto nei territori oltremanica – scelse “remain”.

Fabian Picardo, il premier di questa striscia di terra lunga appena 6 chilometri quadrati, ha provato ad avanzare una proposta: far aderire da subito Gibilterra al Trattato di Schengen, garantendo, quindi, la libera circolazione dei 14mila transfrontalieri, quasi tutti spagnoli e circa 2 mila britannici residenti in Spagna, che tutti i giorni varcano il cancello per lavorare nelle tante società di servizi operanti nella piccola penisola.

Il governo di Boris Johnson frena, mentre l’esecutivo di Madrid del socialista Pedro Sánchez si sente pronto ad esercitare una maggiore influenza sul promontorio, considerato colonia britannica in territorio spagnolo.

Nelle Cancellerie si abbozza un accordo fiscale tra la Spagna e il Regno Unito, un documento che nelle intenzioni della Moncloa dovrebbe evitare che il Peñón assuma, con maggiore nettezza, i caratteri di un paradiso per affaristi ed evasori.

Intanto dall’Andalusia, regione più a diretto contatto con il micro-Stato, si levano voci allarmate, se i dati del 2018 registravano per le esportazioni verso il promontorio una percentuale del 3,1% dell’export – pari agli scambi andalusi verso il Belgio o i Paesi Bassi – si teme che i rapporti possano subire una battuta d’arresto.

Ad incidere sono le sopraggiunte ambiguità sulla circolazione delle persone e delle merci che fanno di Gibilterra una terra indefinita.

O, per la politica, semplicemente un territorio non autonomo in attesa di decolonizzazione.

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