Cultura

Lo scaffale dei libri, la nostra rubrica settimanale: diamo i voti dal sopravvissuto alla strage di Charlie Hebdo a Laura Imai Messina

di Davide Turrini

Quel che affidiamo al vento - 3/4

“E insomma”, aveva esordito la voce che aspirava a stretti intervalli una sigaretta “c’è questa cabina telefonica in mezzo a un giardino, su una collina isolata dal resto. Il telefono non è collegato ma le voci le porta via il vento. Dico Pronto Yoko come stai? e mi pare di tornare ad essere quello di una volta, mia moglie che mi ascoltava dalla cucina, sempre indaffarata sulla colazione o sulla cena, io che brontolavo perché il caffè mi bruciava la lingua”. Dopo questa estemporanea sinossi/citazione come si fa a non voler sfogliare Quel che affidiamo al vento (Piemme) dell’italiana Laura Imai Messina? La cabina nera citata è quella del giardino di Bell Gardia, piazzata lì un giorno da un signore sulla montagna Kujira-Yama, angolo nord-orientale del Giappone, territorio particolarmente colpito dallo tsunami del 2011. Un anello di congiunzione simbolico tra i vivi e i morti dove le persone che hanno perduto i propri cari ci vanno per davvero. Tirano su la cornetta, provano a dire qualcosa, magari ascoltano solo il suono di una risposta impossibile. Lo spunto vale già mezzo libro, ma l’autrice – quattro romanzi giapponesi in sei anni e un notevole successo di vendite – è capace di inzuppare l’intuizione in una storia altrettanto efficace, nodosa, articolata. Siamo sul terreno scivoloso della cognizione del dolore e dell’elaborazione del lutto. Bene o male ci casca il mondo. Messina no. Sarà per la convinta e matura struttura di una variante dell’esotismo letterario contemporaneo, ma la vicenda della conduttrice radiofonica Yuki, figlia e madre risucchiate dalla tregenda del 2011, che ascolta una testimonianza in radio e poi parte per la cabina e là incontra perfino il signor Takeshi, un medico anch’esso vittima di un lutto familiare, e grazie al quale ricomincerà a vivere, è un racconto dolente e magico, basculante tra spiritualità e sentimento, tra prudenza formale ed esplorazione emotiva. Le digressioni dolci sul passato tragico dei protagonisti, i piccoli scarti meccanici di pausa tra un breve capitolo e l’altro (elenchi, frasi, numeri, dettagli) mostrano l’onestà intellettuale dell’intera operazione: non è tempo di capolavori, stare lontani dalla straordinaria eccentricità di una Alice Sebold (Amabili resti), ma riuscire a trasmettere anche solo per un attimo in mezzo al vento sonorizzato della morte una stilla di felicità in chi legge. Voto: 7+

 Quel che affidiamo al vento - 3/4
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