Un omicidio di ‘ndrangheta è stato risolto a Reggio Calabria dopo 32 anni grazie all’esame del dna. A Vincenzino Zappia, braccio destro del boss Giuseppe De Stefano e storicamente indicato dai pentiti come uno dei principali killer della seconda guerra di mafia, i carabinieri hanno notificato l’ordinanza di custodia cautelare in carcere, dove si trova in seguito alle pesanti condanne ottenute nei processi “Il Padrino” e “Il Principe”. Condanne, per un totale di 30 anni, per le quali ancora poteva sperare, un giorno, di riconquistare la libertà: da oggi, però, rischia l’ergastolo. È accusato di omicidio per avere ucciso, il 22 aprile 1988, Giuseppe Cartisano. L’agguato rientrava nella mattanza che, dal 1985 al 1991, ha insanguinato Reggio Calabria con lo scontro tra i Condello-Imerti e i De Stefano-Tegano di cui faceva parte Vincenzino Zappia.

Oggi ha quasi 52 anni, ma all’epoca Zappia ne aveva compiuti appena 20 quando, assieme a Luciano Pellicanò, uccise Giuseppe Cartisano, “colpevole” – ipotizzano i carabinieri – di aver partecipato all’agguato in cui fu ammazzato il “boss destefaniano di Gallico” Carmelo Cannizzaro. Un testimone di quel delitto riconobbe uno dei killer dei Condello (quello che sparò alla gamba di Cannizzaro) nella foto di Cartisano che i carabinieri gli fecero visionare. In quell’attentato, Cartisano fu riconosciuto perché smarrì la parrucca poi rinvenuta dagli investigatori.

La vendetta si consumò a distanza di sette giorni: erano le 22:50 quando il commando dei De Stefano-Tegano irruppe a Piazza De Nava, all’interno di una gelateria, uccidendo Giuseppe Cartisano. Durante la fuga, però, i due sicari si sono imbattuti in una pattuglia dei carabinieri ingaggiando un violento conflitto a fuoco. Luciano Pellicanò rimase ucciso, con a terra le armi utilizzate per l’agguato appena commesso: una Beretta calibro 7,65, una pistola calibro 22, una rivoltella calibro 38 e una pistola Walther calibro 7:65. I complici riuscirono a scappare e tra questi anche Vincenzino Zappia. Il killer, però, fu ferito a una gamba da un colpo di pistola sparato dai carabinieri che, sul luogo del delitto, trovarono numerose tracce ematiche non riconducibili alla vittima. Per paura di essere arrestato, Zappia non andò in ospedale ma “sarebbe stato curato – scrissero gli investigatori – da medici compiacenti”.

Gli accertamenti tecnici condotti all’epoca non consentirono di risalire al killer. Oggi, invece, dopo 32 anni quel sangue lasciato sull’asfalto (e conservato negli archivi giudiziari) si è rivelato fondamentale per consentire al procuratore Giovanni Bombardieri e al sostituto della Dda Walter Ignazitto di inchiodare Zappia sulla scena del delitto. È stata infatti riscontrata la perfetta sovrapponibilità tra il profilo genetico molecolare estratto dalle tracce ematiche rinvenute a piazza de Nava e quello ricavato dal tampone salivare di Vincenzino Zappia che si è sempre salvato dalle accuse di omicidio.

Eppure, stando alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, era uno dei killer più fidati del cartello De Stefano-Tegano. Basta pensare che, nel 2006, il pentito Nino Fiume disse: “Vincenzo Zappia è stato ritenuto sempre da tutti uno che non sa nemmeno lui quanti omicidi ha fatto”. Sull’omicidio del 1988, inoltre, avevano riferito numerosi collaboratori. Il primo era stato il condelliano Giacomo Lauro nel 1992 quando ai pm disse: “Per quanto riguarda il duplice omicidio Cartisano-Pellicanò posso soltanto dire che il Cartisano apparteneva al nostro gruppo mentre il Pellicanò ucciso dal carabiniere, apparteneva al gruppo Tegano-De Stefano ed operava assieme a Fracapane Giovanbattista e Panuccio coi quali peraltro era in rapporti di costante frequentazione”.

L’anno successivo, nel 1993, il collaboratore Giovanni Riggio fece proprio il nome di Zappia e indicò i nomi dei mandanti: “Furono Carmelo Barbaro e i fratelli Tegano”. “All’interno di una gelateria, sita in Via De Nava, accanto al Museo, – sono le parole del pentito – un gruppo di fuoco uccise Giuseppe Cartisano. Mentre i killers tentavano la fuga vennero intercettati dai carabinieri e ingaggiarono un conflitto a fuoco. Nell’occasione rimase ucciso Luciano Pellicanò mentre fu ferito Vincenzo Zappia. Quest’ultimo riuscì a fuggire, pur essendo ferito ad una gamba, grazie all’aiuto dei complici. Lo Zappia, successivamente, venne curato in segreto, approfittando di medici al servizio della cosca Tegano-De Stefano”. Nell’interrogatorio del 25 settembre 2014, la stessa storia la raccontò il pentito Roberto Moio che visse da vicino la guerra di mafia perché imparentato con i boss Tegano di Archi. In un verbale finito nel fascicolo del processo “Il Padrino”, Moio parlò di Vincenzino Zappia: “È un affiliato storico alla ‘ndrangheta. Quando Zappia è stato ferito in occasione dell’omicidio Cartisano è stato curato dal dottore Suraci e dal dottore Cellini”.

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