Passata la bufera delle elezioni regionali, con il dibattito che sembra essere stato dedicato principalmente all’uso del citofono, possiamo tornare per un po’ a occuparci di argomenti un po’ più fondamentali, come quello dei rifiuti.
Vi ricordate di qualche mese fa quando era venuto fuori che la bioplastica, marcata come “biodegradabile”, non si degradava negli impianti di compostaggio esistenti? Bisognava buttarla nell’indifferenziato.
Dopo la fiammata di polemiche che ne era derivata, tutto è ritornato in silenzio ma, alcuni giorni fa, “Utilitalia” se ne è uscita con un interessante rapporto sulle bioplastiche. Forse non avete sentito parlare di Utilitalia perché è stata fondata abbastanza di recente, nel 2015, ma è una federazione che riunisce varie aziende di servizi pubblici incluso quelle dell’Ambiente, ovvero dei rifiuti.
Quindi, questo rapporto, definito “documento di posizionamento”, rappresenta una voce abbastanza ufficiale sull’argomento, anche se non è stato molto pubblicizzato e rimane un po’ nascosto sul loro sito. Sono 10 pagine piuttosto dense, ma di grande interesse se riuscite a districarvi nella terminologia usata, un po’ ostica per i non-addetti ai lavori.
Vi riassumo la faccenda. Per prima cosa Utilitalia descrive la direttiva europea “Sup” del 2019 (2019/904) che si riferisce alla plastica monouso, (single use plastic). La direttiva è chiara: non fa distinzione fra plastica di origine fossile o biologica, che sia o non sia “biodegradabile”.
Dice che la plastica monouso va abolita in un gran numero di casi, ovvero, niente più piatti, coltelli, forchette, cannucce, agitatori, eccetera. In altri casi, specialmente dove già esistono filiere di raccolta e riciclo, è permesso continuare a usare oggetti in plastica, ma con forti restrizioni. Il divieto non è ancora in vigore in Italia, ma tutti gli Stati europei dovranno adeguare la loro legislazione alla direttiva entro il 3 luglio 2021. Tuttavia, in Italia, la faccenda è stata capita in un altro modo.
Dice Utilitalia, a proposito dei prodotti in bioplastica, che “gli attori del mercato sembrano avere individuato in quest’ultima tipologia di manufatti i sostituti “virtuosi” dei prodotti in plastica tradizionale vietati dalla direttiva europea, con un conseguente progressivo incremento della richiesta di materiale “usa e getta” purché definibile “bio”. Dice ancora Utilitalia a proposito di questi manufatti (nota bene: Pla sta per acido polilattico e vi forse vi ricordate del fallimento recente della ditta che lo produceva in Italia, la Bio-On): “Appaiono virtuosi perché ‘si possono smaltire con l’organico’ (chiara contraddizione in termini, che dimostra la scarsa conoscenza da parte del “mercato” del mondo dei rifiuti). La cosiddetta ‘biobottle’ in PLA ne è un chiaro esempio, visto che dovrebbe sostituire un materiale, il PET, che in realtà è già gestito in un’efficace e consolidata filiera di raccolta e riciclaggio”.
Il rischio è che il legislatore italiano trovi qualche trucco, come sempre si trovano nelle leggi, per non rispettare il divieto europeo consentendo, o addirittura incoraggiando il consumo di bioplastica usa e getta “in nome dell’ambiente”.
Questa non sarebbe una buona idea e genererebbe un sacco di problemi, alcuni dei quali li vediamo già. Dice Utilitalia che”…la grande richiesta di manufatti usa e getta alternativi a quelli in plastica tradizionale da parte di alcune sigle della GDO [grande distribuzione organizzata] sta portando sugli scaffali quote importanti di materiali che non sono neanche certificati ma che, nonostante questo, riportano diciture che invitano gli utilizzatori a gettare il rifiuto nella raccolta differenziata dell’organico”.
Ora, non facciamo di ogni erba un fascio: l’imbroglio si riferisce più che altro a manufatti importati la cui origine è spesso difficile da tracciare. Ci sono manufatti prodotti in Italia che sono perfettamente compostabili negli impianti esistenti, per esempio i sacchetti del supermercato.
Il problema è che gli impianti non sono stati costruiti per gestire una massa crescente di bioplastiche di vari tipologie e composizioni. Questo crea grossi problemi tecnici per le industrie di trattamento, costi non indifferenti per nuovi impianti (che ricadranno sui cittadini) come pure grattacapi per gli utenti che dovrebbero districarsi fra i vari tipi di plastiche da smaltire.
Alla fine dei conti, la cosa più semplice sarebbe di adeguarsi alla direttiva europea: niente più plastiche monouso, punto e basta. Meno rifiuti, meno problemi. Non sarebbe la cosa migliore?