Dal mio osservatorio genovese assisto al perdurare nel Pd e dintorni della sbornia a seguito degli esiti elettorali di domenica scorsa (ovviamente emiliano-romagnoli, visto che su quelli calabresi è calato il silenzio dei sedicenti trionfatori). L’ipotetica ripresa per grazia ricevuta di un partito in palese declino, che ora sembra aver ritrovato l’insopportabile spocchia dei suoi anni migliori(?): l’albagia neo-togliattiana di Massimo D’Alema, lo sconfittismo veltroniano con pretesa maggioritaria, il blairismo vent’anni in ritardo e spruzzatine berlusconiane di Matteo Renzi.
La supposizione di scampato pericolo e il vagheggiamento di un rinascente sol dell’avvenire producono gravi fenomeni di impazzimento, che stanno trasformando i mesi che ci separano dalle elezioni regionali liguri in un gioco al massacro; si direbbe finalizzato a spazzare via ogni forma di nascente discontinuità rispetto alle pratiche con cui il personale dirigente prima dell’avvento forzaleghista di Giovanni Toti si era definitivamente screditato. E che ora parrebbe voler impudentemente riproporre. Il patetico tentativo di tenere il pallino in mano affastellando una ridda di candidature problematiche e sempre diverse, per esorcizzare/silenziare la proposta realmente credibile: il gruppo di Oltre. L’unica realtà organizzata in campo, che mobilita ragazzi e ragazze come mai in passato, insieme ad antichi oppositori dell’andazzo che fece implodere i post-comunisti sotto la Lanterna. I critici della stagione legata al nome dell’ultimo presidente della sedicente sinistra – Claudio Burlando – a cui faceva riferimento la cupola affaristica locale (dalla Cassa di Risparmio ai signori della portualità e della logistica), poi passata regolarmente sotto l’egida totiana.
Ma i nostalgici di antiche e improponibili egemonie continuano a ignorare che il successo di Stefano Bonaccini non costituisce un precedente riproducibile: l’Emilia è l’Emilia, con un antico radicamento piccista che poteva essere rianimato da iniziative di base come le Sardine, il presidente uscente del Pd aveva fama di non aver governato troppo male (anche se la sua legge urbanistica ultraliberista rimane francamente imbarazzante), la contendente Lucia Borgonzoni si è confermata impresentabile, soprattutto dovrebbe dirla lunga il fatto che il vincitore ha rifiutato rigorosamente di esporre i simboli del Pd per tutta la campagna.
Stando così le cose, la ragionevolezza ritrovata dalle mie parti imporrebbe tre assunti:
1. Oggi la Regione governata dalla Destra è contendibile, stanti anche le evidenti tensioni nel suo stesso campo (a partire dall’azione destabilizzatrice di Claudio Scajola), sempre che non prevalgano miserevoli velleità personali;
2. Una lettura appena attenta dei sondaggi dovrebbe far prendere atto ai partiti che hanno perso non solo la Regione, ma pure le amministrazioni dei comuni capoluoghi di provincia, di restare largamente minoritari; mentre i Cinquestelle se lo sognano il 25% del 2015 (ormai falcidiato a un presumibile 5%, nonostante le fisime governatoriali della capogruppo Alice Salvatore);
3. Il criterio indispensabile per vincere è quello coalizionale, aggregando un perimetro analogo a quello che oggi sostiene (fino a quando?) il governo Conte. Evitando candidature divisive e/o di disturbo.
A fronte di tutto ciò, attendibili sondaggi quotano il presidente uscente Toti sotto il 51%, ma tuttora in assenza di un avversario in campo. Quindi battibile.
Dunque, il futuro da queste parti è strettamente legato al riaccendersi del buon senso negli attori in campo. Forse darebbe una mano se gli esponenti nazionali per una volta facessero ragionare da vincenti gli inconsapevoli aspiranti suicidi dello schieramento anti-sovranista al basilico. E che qualcuno a Sant’Ilario si risvegliasse dal torpore.