Per molti cittadini inglesi la Brexit è stata un po’ come il capodanno, da festeggiare in strade e piazze come l’inizio di una nuova pagina di storia del Regno Unito. A essere meno entusiasta, però, è l’industria automobilistica locale, non del tutto convinta che si possano evitare dazi doganali parecchio penalizzanti né quelle che la Society of Motor Manufacturers and Traders (SMMT) definisce “barriere nascoste dietro ai confini”. Senza contare che, secondo SMMT, le varie case costruttrici dovranno recuperare in qualche modo i 600 milioni di euro spesi fino ad oggi per prepararsi alla Brexit.
Il dato di fatto è che l’uscita dalla Unione Europea comporterà per i fabbricanti d’auto che hanno attività nel Regno Unito una lunga serie di cambiamenti, come ad esempio quelli sulle omologazioni di nuovi modelli costruiti in Gran Bretagna, che dovranno essere ripetute anche in un Paese dell’Unione affinché le auto possano circolare in Italia, piuttosto che in Spagna o in Francia. Certamente, poi, bisognerà trovare soluzioni comuni anche per quanto concerne la logistica verso gli stabilimenti oltre la Manica, che potrebbe essere fortemente rallentata dai controlli doganali.
In tal senso tutti i costruttori presenti in Gb – parliamo di colossi come PSA, Ford, Nissan, Honda, Bmw (con Mini e Rolls Royce), Aston Martin (legata per le forniture a Mercedes), Bentley (Gruppo Volkswagen), Toyota e Jaguar Land Rover (Gruppo Tata) – hanno studiato e attivato piani di emergenza, in vista di un allungamento dei tempi di arrivo della componentistica dalla Ue.
Secondo i dati Acea (l’Associazione europea dei costruttori di auto) il flusso dei componenti proveniente dall’Europa e diretti verso il Regno Unito vale 11,4 miliardi di euro. Chi sta sudando freddo è soprattutto il gruppo Jaguar-Land Rover che, oltre a essere alle prese con un periodo in cui gli affari non vanno benissimo, ha pure la necessità di stoccare componenti per un valore di milioni di euro. Ciò è contro i principi della produzione “just in time”, che prevede l’arrivo dei pezzi al momento del loro assemblaggio, proprio per risparmiare sui costi di stoccaggio e logistica.
Preoccupazione anche per Mini, che riceve ogni giorno 80 Tir con le parti fabbricate nella Ue: il marchio controllato da BMW potrebbe soffrire di stop delle linee e magari decidere di spostare in altre fabbriche quote della produzione. Per la medesima ragione, Gruppo Bmw ha posticipato l’introduzione della nuova generazione della Mini, visti i costi di produzione in ascesa e le incertezze legate al post Brexit. E che dire della ‘regina’ delle automobili britanniche, la Rolls-Royce, sempre di proprietà BMW? Per i suoi modelli utilizza il 92% di parti provenienti dall’estero…
Aston Martin ha aumentato lo stock da due a cinque giorni lavorativi e ha, addirittura, studiato itinerari alternativi per far arrivare parti dalla Germania senza incappare nelle dogane più intasate. Critica la situazione dell’impianto Nissan di Sunderland, il maggiore stabilimento del Paese: ”Se dovessimo sostenere il 10% di dazi all’esportazione sulle auto che mandiamo verso l’UE, e sapendo che tali veicoli rappresentano il 70% della produzione totale, il modello di business globale non sarà più sostenibile”, aveva sostenuto la dirigenza a fine 2019.
Honda chiuderà lo stabilimento di Swindon nel 2021 (licenziando 3.500 persone) e sta ridimensionando i programmi di produzione attuali, che prevedono 160 mila Civic assemblate annualmente, di cui il 90% destinate all’export. Grigia la situazione per Ford, che potrebbe decidere – nell’ambito del suo piano di ristrutturazione – di fermare la produzione nei tre stabilimenti in Gran Bretagna, spostandola in qualche impianto nell’Europa continentale e mantenere in Uk solo il grande centro ricerche. Insomma, a bagordi terminati, gli inglesi pro-brexit rischiano di risvegliarsi con un grandissimo mal di testa, lo stesso che, purtroppo, proveranno i cittadini d’oltremanica che erano per il “remain”: i comparto automotive dà infatti lavoro, compreso l’indotto, a 477 mila persone. Tutti posti a rischio.