Mentre si avvicinano le Olimpiadi di Tokyo, il Giappone (sotto pressione) è sempre più vicino alla decisione definitiva di smaltire nel Pacifico le acque radioattive della centrale nucleare di Fukushima, danneggiata in seguito al triplice disastro dell’11 marzo 2011. Dopo tre anni di discussioni, infatti, la sottocommissione di esperti istituita dal ministero dell’Economia e dell’Industria del Giappone e incaricata di fornire un consulenza al governo è giunta alla sua conclusione. Secondo il panel quella di rilasciare il liquido in mare è la scelta migliore per smaltire le acque contaminate. L’ultima parola spetta al governo giapponese di centrodestra, che è solito seguire le raccomandazioni degli esperti e che ora si trova in una situazione difficile: da un lato le preoccupazioni degli Stati vicini e le critiche degli ambientalisti, dall’altro le operazioni di bonifica che richiedono più tempo del previsto. Intanto, le Olimpiadi di Tokyo sono dietro l’angolo, con eventi che dovrebbero tenersi a meno di 60 chilometri dalla centrale.

LA SCELTA FINALE TRA DUE OPZIONI – La sottocommissione Handling ALPS Treated Water (Advanced Liquid Processing System) aveva già a dicembre ristretto la scelta delle possibili soluzioni a due opzioni (su cinque iniziali): rilasciare l’acqua contaminata nell’Oceano Pacifico, appunto, o lasciarla evaporare. “Rispetto all’evaporazione – ha dichiarato il team di esperti – il rilascio degli oceani può essere effettuato in modo più sicuro, consentendo anche un monitoraggio più semplice”. Ciò avverrebbe rimuovendo dall’acqua tutte le particelle radioattive tranne il trizio, un isotopo di idrogeno, difficile da separare e considerato relativamente innocuo. Meglio: secondo gli studi sarebbe cancerogeno per l’uomo solo a livelli molto elevati. Come ricordato dalla sottocommissione si tratterebbe di una pratica già adottata sia in Giappone che all’estero, in quanto le centrali nucleari normalmente operative rilasciano acqua che contiene trizio nel mare. Due le precauzioni: i controlli sui livelli di concentrazione e un secondo trattamento dell’acqua, prima del rilascio in mare, per diluire i livelli di trizio al di sotto degli attuali standard di sicurezza.

LA SITUAZIONE DI EMERGENZA – Intanto il tempo corre e ogni giorno a Fukushima vengono utilizzati 200 metri cubi di acqua per raffreddare i reattori ed evitare che si fondano. Dopo la contaminazione, l’acqua al trizio viene stoccata in quasi mille serbatoi che hanno una capacità complessiva di oltre un milione di tonnellate. Si possono costruire altri serbatoi, certo, e la società che gestisce la centrale, la Tokyo Electric Power (Tepco) ha previsto di farlo, ma le dimensioni del sito consentirebbero comunque di stoccare non più di 1,37 milioni di tonnellate di acqua. E la Tepco ha già annunciato la scorsa estate che lo spazio si esaurirà nel 2022.

I TIMORI – Già nei mesi scorsi, mentre cresceva l’allarme dei Paesi più vicini al Giappone, Greenpeace si era opposta a quanto proponeva la commissione, affermando che la scelta di scaricare l’acqua contaminata nell’Oceano Pacifico è quella che richiede il costo finanziario minore, ma rappresenta “la minaccia più immediata per l’ambiente e il fallimento del governo di Tokyo rispetto alla ricerca di alternative più sicure” e meno devastanti per l’ecosistema marino. C’è da dire che il disastro di Fukushima ha già avuto un impatto molto negativo sul commercio dei prodotti agricoli e marini, ed è questa la ragione per cui i pescatori si oppongono allo scarico di acque contaminate, anche trattate. La stessa sottocommissione ha ammesso che questo sistema potrebbe pesare ulteriormente sull’attività della pesca, che negli ultimi anni ha dovuto fare i conti con restrizioni e un danno di immagine incalcolabile. Gli ambientalisti, inoltre, contestano la valutazione degli esperti, secondo cui la vaporizzazione nell’atmosfera avrebbe ampliato l’area geografica interessata a eventuali effetti negativi. In questa vicenda hanno un peso anche alcuni errori commessi dalla Tepco in questi anni. Solo nel 2018, ad esempio, la Tokyo Electric si è scusata dopo aver ammesso che i suoi sistemi di filtraggio non avevano rimosso tutto il materiale pericoloso dall’acqua. Secondo Greenpeace Japan la soluzione migliore per l’ambiente “è lo stoccaggio a lungo termine dell’acqua radioattiva in serbatoi robusti, insieme all’applicazione della tecnologia di elaborazione più avanzata per rimuovere tutti i radionuclidi, incluso il trizio”. Una soluzione che finora è stata ritenuta non fattibile sia dalla società che dal governo giapponese.

I TEMPI CHE SLITTANO – Che, proprio di recente, ha dovuto prendere un’altra decisione difficile: ritardare il processo di rimozione del magma radioattivo. L’aggiornamento del nuovo piano è stato comunicato dopo la prima revisione in due anni del processo di smantellamento dell’impianto, che dovrebbe concludersi tra il 2041 e il 2051. In base alla nuova tabella di marcia, l’allontanamento del prodotto della fusione del nocciolo nel reattore numero 1 subirà un ritardo tra i tre e i cinque anni, con i lavori che non inizieranno prima del 2027. Gli interventi al reattore numero 2, invece, saranno prorogati tra i due e i tre anni, con l’avvio intorno al 2024. I ritardi sono dovuti alle nuove norme necessarie a impedire l’eccessiva propagazione delle radiazioni. Il governo prevede di terminare le operazioni di dislocamento del magma da tutti i sei reattori della centrale atomica entro la fine del 2031. Nel frattempo il sito deve essere continuamente raffreddato e l’equivalente di 170 tonnellate di acqua radioattiva vengono prodotte giornalmente. Il programma più recente prevede una graduale riduzione del liquido radioattivo a cento tonnellate giornaliere entro il 2025.

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