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Primarie in Usa, viaggio tra gli afroamericani in Iowa. “Tutti i candidati sono bianchi. Biden minestra insipida, ma bisogna battere Trump”

REPORTAGE DA DES MOINES - Gli afroamericani sono un quarto del voto complessivo, quindi non c’è candidato che aspiri alla nomination e che possa prescindere dal voto nero. Ma queste primarie - che partono proprio dall'IOwa - passeranno alla storia come le più “bianche” degli ultimi decenni. “Qui noi neri siamo pochi - dice Ivette West, parrucchiera 28enne -. Ma te li immagini tutti questi democratici bianchi quando andranno a chiedere il voto in Alabama, in Georgia, in South Carolina?”

Brad Bruce segue Joe Biden ovunque. “Ovunque la salute me lo permetta”, dice. Brad è un afro-americano di sessantanove anni. Cammina appoggiandosi a una stampella, ma quello di Waukee, un sobborgo rurale di Des Moines, in Iowa, è il suo sesto comizio di Biden in meno di una settimana. “Sono in pensione, ho deciso di seguire per bene le primarie in Iowa”, spiega. Per lui, Biden è il candidato migliore. “Ha esperienza, visione, compassione. Gli sono morti due figli, sa cos’è il dolore”. Quando gli chiedo cosa pensi del fatto che non c’è un solo candidato nero alle primarie democratiche, alza le spalle. “Mi spiace, ma concentriamoci su come battere Trump”. Ammette una cosa: “L’assenza di un nostro candidato potrebbe essere un problema. Meno entusiasmo, meno voglia di andare a votare”.

Le primarie democratiche 2020 passeranno alla storia come le più “bianche” degli ultimi decenni. Sul palco dell’ultimo dibattito TV, a Des Moines, non c’era un solo afro-americano. E l’Iowa è il primo stato americano a votare per le primarie. Costretti a mollare Cory Booker e Kemala Harris. Escluso dal dibattito – ha numeri troppo piccoli nei sondaggi – Deval Patrick. Fuori gioco anche l’unico ispanico, Julian Castro. “In queste primarie, ci sono più miliardari che gente di colore”, ha accusato Cory Booker, con riferimento a Michael Bloomberg e Tom Steyer, che stanno pagando la campagna con le loro immense fortune. Per alcuni sono stati proprio i magri conti in banca a costringere Booker, Harris e Castro a mollare. Altri puntano il dito contro i media, colpevoli di entusiasmarsi esclusivamente per storie e candidati bianchi. Un esempio? Sia Kemala Harris che Pete Buttigieg hanno un passato difficile, superato grazie a forza di volontà e sogno americano – lei veniva portata in pullman nelle scuole desegregate, lui era un giovane gay non dichiarato nell’esercito. Eppure giornali e TV hanno privilegiato il racconto di Buttigieg, contribuendo largamente alla sua ascesa politica.

Comunque sia, il partito che si vanta di rappresentare la diversità e la ricchezza del pianeta America non riesce a trovare un solo candidato che non sia bianco; avevano fatto meglio i repubblicani nel 2016, con due ispanici e un nero in corsa per la presidenza: Marco Rubio, Ted Cruz e Ben Carson. Per i democratici, non si tratta soltanto di un problema culturale. Gli afro-americani sono infatti circa un quarto del voto complessivo delle primarie. Ciò significa che non c’è candidato che aspiri alla nomination che possa prescindere dal voto nero. La cosa diventa ancora più urgente in vista delle elezioni generali del novembre 2020. È impossibile battere Donald Trump senza un’affluenza copiosa ed entusiastica degli afro-americani (e degli ispanici) alle urne. Il problema è quindi: come si fa a riscaldare la base elettorale, se il partito assomiglia a quello di cinquant’anni fa?

“Biden è conosciuto perché è stato il vice di Obama, ma non entusiasma” – “Vengono qua, vogliono il nostro voto, se ne vanno. Anzi, no, quest’anno non sono neanche passati”. Ivette West, 28 anni, fa la parrucchiera nel North Side di Des Moines. È la zona più povera della città, quella con la maggior concentrazione di popolazione afro-americana. Dice che quest’anno non sa se voterà, “e come me non lo sanno molte delle mie clienti”. Ride quando spiega: “qui in Iowa noi neri siamo pochi. Ma te li immagini tutti questi democratici bianchi quando andranno a chiedere il voto in Alabama, in Georgia, in South Carolina?” Le dico che i sondaggi danno Joe Biden in vantaggio tra gli elettori afro-americani: il 48 per cento lo preferisce agli altri candidati democratici. Ci pensa un momento. Alza le spalle. “E’ perché conoscono lui. È perché è stato il vice di Obama. Ma Biden non entusiama nessuno. Ci danno una minestra insipida e quella ci tocca mangiare”.

“In effetti, quest’anno non si vedono cartelli elettorali nei cortili delle case. Né mi sembra che i candidati abbiano aperto uffici in questa parte della città, come aveva fatto Obama nel 2008. Ma forse è ancora troppo presto”, racconta Alfonso Wandera, che studia political science in California e che è tornato a casa, in Iowa, per seguire i caucuses democratici. Wandera nota una generale mancanza di entusiasmo nel North Side ed è anche lui d’accordo sul fatto che Biden sia un po’ “minestra insipida”. “I neri, qui come altrove, vogliono soprattutto due cose: lavoro e quartieri più tranquilli dove far crescere i propri figli. Biden è stato vice di Obama ed è percepito come il candidato con maggiore esperienza, quello più capace di assicurare queste richieste elementari. Ma molti afro-americani potrebbero cambiare idea se vedessero un po’ di luce in un candidato che non sia Biden”.

Quando il vento cambiò con Obama – Viene in mente l’inizio delle primarie 2008. Hillary Clinton era, allora, la candidata preferita dagli afro-americani. Era la moglie di Bill, il presidente amatissimo dai neri. Ed era considerata parte dell’establishment, quindi capace di incarnare quel rapporto di scambio politico che democratici e comunità nera hanno spesso intrattenuto. Più capace di una giovane ma ancora acerba star della politica quale era Barack Obama. Scrisse Eugene Robinson nel 2007 sul Washington Post: “Molti afro-americani mi dicono di essere entusiasti all’idea della candidatura di Obama, ma che sospettano che loro non lo lasceranno vincere”. Loro erano gli elettori bianchi, la politica di Washington, il sistema di potere. Quando Obama trionfò in Iowa, il vento cambiò e alla fine il senatore dell’Illinois conquistò il 90 per cento del voto nero. Successe, semplicemente, che Obama passò dall’essere una promessa a rappresentare una possibilità. Potrebbe succedere anche ora, solo che, come dice Alfonso Wandera, “la possibilità non si vede”.

Negli ultimi giorni un tweet di Pete Buttigieg ha ridato fiato alla polemica. “Abbiamo bisogno di un presidente la cui visione sia ispirata allo Heartland americano più che alla politica di Washington”, ha scritto Buttigieg. Ma qual è questo “cuore” americano? Il Midwest da cui arriva Buttigieg? Ed è il “cuore” della vecchia America, bianca e cristiana, non molto diversa da quella che ha portato alla Casa Bianca Donald Trump, che esclude i neri e le altre minoranze? Parlare di Heartland è “fare un fischio ai bianchi, mandargli un messaggio cifrato ma comprensibilissimo”, ha scritto la giornalista Soledad O’Brien. Sulla stessa linea un’altra scrittrice, Michele Norris. “Sono cresciuta nello Heartland. Terra di piatti al forno, di fiere e di bingo il venerdì sera. Ma quella parola non c’entra nulla con il quartiere dove vivevo e con le persone della grande migrazione che mi hanno allevata”. Non sorprende quindi che il consenso di Buttigieg tra gli afro-americani sia vicino allo zero.

I dem potrebbero perdere il voto dei neri, degli studenti e dei giovani” – “I democratici devono maneggiare la questione con grande prudenza – mi dice Rachel Caufield, che insegna political science a Drake University -. Potrebbero non soltanto perdere una parte del voto nero, a novembre. Potrebbero anche allontanare i più giovani, gli studenti, che sentono con forza la questione della giustizia razziale”. Sarebbe un disastro. E un paradosso: i democratici rischierebbero di perdere le elezioni perché percepiti come non sufficientemente aperti e inclusivi, per di più contro un presidente che del risentimento dell’America bianca ha fatto uno dei suoi punti di forza.

È un’eventualità cui Brad Bruce, il sostenitore di Biden incontrato nella campagna dell’Iowa, non vuole nemmeno pensare. “Forse basterà che il candidato vincente scelga un afro-americano come suo vice – mi dice -. A quel punto anche noi neri ci sentiremmo rappresentati”. Ma basta? gli chiedo. Basta un vice nero per chiudere la questione? Ci pensa un po’. Poi: “Forse no, non basta. Sembrava che Obama avesse cambiato le cose e che i neri potessero essere protagonisti, non solo merce di scambio politico. Magari le cose cambieranno, prima o poi. Ora però conta solo una cosa. Battere Donald Trump”.