Il 16 gennaio, alla libreria Odradek di Roma, Michele Di Giorgio, ricercatore all’Università di Pisa, ha presentato il suo saggio Per una polizia nuova (Viella, 2019), che ripercorre tutta la storia del movimento per la riforma della Pubblica Sicurezza, dal 1969 fino al 1981. Tra il pubblico c’era anche Angela Fedeli, vedova di Franco Fedeli, quel partigiano e giornalista che tanto aveva contribuito alla causa dei poliziotti quando era direttore delle riviste Ordine Pubblico e Polizia e Democrazia.
A introdurre l’incontro c’era Silvano Filippi, segretario nazionale del Siulp, cioè proprio di quel sindacato che nacque a Roma il 4 maggio del 1980, prima ancora della legge di riforma, anche grazie alla vicinanza della Confederazione Cgil-Cisl-Uil. Filippi ha raccontato quanto fu difficile per il movimento sostenere e affermare le ragioni della democratizzazione del “Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza”. I poliziotti subirono allora la dura repressione del ministero e dei vertici: trasferimenti punitivi, espulsioni, ingiusti procedimenti disciplinari e penali.
Michele Di Giorgio ha saputo descrivere bene il clima politico in cui si svolse quella lunga battaglia per i diritti sindacali: da un lato ci fu il sostegno dei partiti progressisti (comunisti, socialisti e radicali), dall’altro la feroce avversione delle destre (gran parte della Dc e Msi). Eppure la sinistra non sempre aveva mostrato sensibilità per i diritti dei poliziotti, forse a causa di una atavica diffidenza verso i “celerini”.
La parola è passata perciò a Cesare Vanzella, già direttore di Polizia e Democrazia e autore de Il caso Annarumma (Castelvecchi, 2019), che ha spiegato come le forze progressiste abbiano scoperto con grave ritardo che “anche i poliziotti sono lavoratori”. E questo avvenne solo dopo le rivolte scoppiate nelle caserme all’indomani della morte dell’agente Antonio Annarumma, ucciso a Milano il 19 novembre 1969 durante una manifestazione studentesca (in circostanze mai chiarite).
La legge di riforma della Polizia arrivò nel 1981 ed entrò in vigore simbolicamente il 25 aprile, ma fu in realtà il risultato di un compromesso al ribasso. Vennero mosse, in particolare, condivisibili critiche al divieto di aderire o di affiliarsi alle organizzazioni sindacali degli altri lavoratori, frutto di quella arretrata e perdurante logica della “separazione” dei corpi dello Stato dalla società civile. In contrasto col principio costituzionale della libertà sindacale, quella regola – come osservò Gino Giugni – rischiava di isolare e rendere scarsamente efficace l’azione del sindacato di polizia.
Il processo di modernizzazione non riguardò invece il mondo militare, sebbene anch’esso fosse stato attraversato in quegli anni da proteste e da forti richieste di cambiamento. Il Pci, in particolare, dimostrò una inspiegabile chiusura alla sindacalizzazione di tutti i militari. Le Forze armate si accontentarono delle “rappresentanze militari” e per fortuna, nei decenni successivi, i cittadini in divisa hanno potuto beneficiare indirettamente dell’attività sindacale dei poliziotti.
Così la presentazione del libro di Michele Di Giorgio è servita a tracciare un parallelo tra la sindacalizzazione della Polizia di Stato e quella, in corso, delle Forze armate. Come negli anni Settanta – ha sottolineato Silvano Filippi – anche oggi sono evidenti le “resistenze conservatrici” alla democratizzazione delle organizzazioni militari. Le accoglie in pieno, come ho scritto più volte, la proposta di legge attualmente in esame alla Commissione Difesa della Camera dei Deputati.
Ma ancor più preoccupante è il testo leghista, presentato lo scorso 9 gennaio, tutto orientato a frammentare la rappresentanza sindacale, a isolarla, a comprimere all’osso le sue competenze, a imbavagliarla e a metterla sotto lo stretto controllo dei vertici militari. La strada è in salita, vero, però vale la pena fare tutto il possibile per scongiurare l’ennesimo tradimento della Carta costituzionale, l’ennesima occasione mancata.