Al Festival di Sanremo Raphael Gualazzi deve moltissimo. Se si pensa all’exploit del 2011 che gli ha concesso di salire sul palco dell’Eurovision Song Contest e agguantare il secondo posto con “Madness of love” (rivisitazione in inglese di “Follia d’amore”), posizione raggiunta solo da Mahmood lo scorso anno. Dopo sei anni, Gualazzi torna sul palco del Teatro Ariston per presentare “Carioca”, un termine che indica gli abitanti di Rio De Janeiro e che si rifà alle atmosfere esotiche, cubane e latinoamericane. Parla di una persona che vive alla giornata, l’elogio di una filosofia di vita. Per la serata delle cover di giovedì 6 febbraio, Raphael ha invitato Simona Molinari per reinterpretare in chiave jazz “E se domani”.
Come mai la scelta per Sanremo è caduta su “Carioca”?
Amadeus ha potuto ascoltare tutto il disco e ha scelto questa canzone. Un brano che è un inno alla vita vissuta giorno per giorno. Al vivere seguendo l’amicizia, l’amore e la musica.
Cosa è cambiato a Sanremo rispetto a sei anni fa?
Ogni anno ci sono artisti che cambiano, c’è una grande varietà, ci sono tanti cantanti di diverse provenienze che raccontano aspetti diversi di ciò che è oggi il panorama della musica italiana odierna. Mi sembra ci sia un bell’equilibrio ma siamo tanti, davvero tanti, 24! Sarà una bella maratona o sequestro (ride, ndr) per chi seguirà la serata del giovedì, venerdì e sabato quanto canteremo tutti e 24!
Cos’è successo in questi quattro anni di assenza musicale?
Mi sono reso conto che la musica era cambiata e ho avvertito parecchio il desiderio di collaborare con diversi produttori per il mio album ‘Ho un piano’. Con i miei collaboratori abbiamo valorizzato l’aspetto compositivo e creativo, anche perché le sonorità, non dimentichiamolo mai, sono un elemento cardine nel mio percorso artistico.
In che senso?
Nasco come musicista e pianista. Il mio progetto artistico viene percepito in maniera differente Paese per Paese. Ad esempio, vengo invitato in diversi festival jazz in Francia, in Giappone, in Gran Bretagna, lì vengo percepito come jazzista ‘contaminato’. In Italia invece sono un artista pop con qualche infarinatura di jazz. Perciò con questi nuovi produttori ho cercato di accogliere, quanto più possibile le contaminazioni.
Tra i brani del disco c’è “Italià”, forse il pezzo più politico. Perché parli di immigrazione?
Volevo affrontare questo tema con un approccio satirico, che non ho mai avuto. Era il periodo delle grandi tensioni tra Europa e Italia in tema di immigrazione. Tutti a discutere cosa fosse eticamente più giusto, ma nessuno si è mai preso le proprie responsabilità. Il mio discorso è molto semplice. Noi stessi siamo stati colonialisti e abbiamo sfruttato le terre di altri Paesi, traendone molti vantaggi. Non ci possiamo permettere di puntare il dito contro gli immigrati, quando noi stessi lo siamo stati.
All’Eurovision hai adattato la tua canzone in inglese e sei arrivato secondo nel 2011. Lo rifaresti anche quest’anno qualora dovessi vincere Sanremo?
L’Eurovision è una vetrina importante, un privilegio e una opportunità per chi fa un lavoro come il nostro per comunicare davanti a quasi 100 milioni di telespettatori di tutto il mondo. In soli tre minuti sei esposto davanti a tutti e riesci a raccontare la tua emozione. L’Eurovision mi ha aperto molte strade all’estero. È vero, in quell’occasione ho riadattato il mio testo rendendolo bilingue, sia perché l’italiano è una bellissima lingua, ma in quel contesto è giusto arrivare a quante persone più possibile perciò ho cantato anche in inglese.