Il primo mese del 2020, anno fatidico per la lotta al cambiamento climatico, si è concluso con due preoccupanti azioni, strettamente legate tra loro, del nostro governo. La prima è l’approvazione definitiva del Piano nazionale integrato per l’energia e il clima (Pniec), ossia del documento strategico che dovrebbe rappresentare la nostra visione industriale, economica e sociale, nei riguardi anche dell’emergenza climatica in atto. In realtà di visione in quel documento ce n’è ben poca.

A partire dalla presentazione della bozza a fine 2018, per tutto il 2019 si sono susseguiti commenti, suggerimenti e appelli da parte di una consistente fetta di portatori di interesse a livello nazionale. Anche chi scrive si era espresso, sottolineando la scarsa lungimiranza del Piano che, di fatto, non faceva che confermare la precedente – e scadente – Strategia energetica nazionale (Sen), redatta dall’allora ministro Carlo Calenda.

È preoccupante rilevare che non vi sia mai stato un vero confronto tra il governo e i diversi portatori di interesse, al di là di qualche tentativo a beneficio più dei media che degli interessi del Paese. Com’è possibile che non si sia riuscito a far capire al governo che esistono altre strade da percorrere per sviluppare il Paese e al contempo affrontare l’emergenza climatica? Com’è possibile che non si sia riuscito a convincerlo che per risolvere le emergenze in atto è necessario un minimo di coraggio, per pensare e agire in modo diverso rispetto al passato?

Com’è possibile che ancora non si sia compresa la forte interrelazione tra gli aspetti ambientali, economici e sociali, e che si continui a perseguire un modello di sviluppo economico completamente obsoleto? Davvero si ritiene che la nostra economia possa riprendersi continuando a pensare, e quindi ad agire, come fatto negli ultimi 50 anni? Possibile che ancora si pensi di ricorrere cosi massicciamente al gas, e per di più rischiando di non riuscire nemmeno a eliminare il carbone? Possibile che al governo, teoricamente composto dalle menti politiche più aperte al cambiamento strutturale dell’Italia, non ci sia nessuno che si ponga seriamente il problema?

Come si fa a conciliare il programma energetico della principale forza di maggioranza (M5S), che punta al 100% di rinnovabili, con un Pniec che vede il nostro Paese, al 2040, ancora dipendere dal gas per quasi il 70%? È quindi credibile l’impegno preso dall’Italia per una piena decarbonizzazione al 2050? Continuare a utilizzare le fonti fossili, come previsto dal Pniec, non è solo anacronistico: è pura follia.

L’altro aspetto negativo di questo inizio d’anno, fortemente legato al primo appena descritto, riguarda il caso specifico della Sardegna. L’uscita dal carbone del nostro Paese passa ovviamente per quella regione, e il governo non fa che confermare la scelta di sostituire tale fonte fossile con un’altra fonte fossile, il gas. Il problema sono i tempi: come già accennato, per sostituire completamente il carbone con il gas (proveniente dall’estero) sono necessarie infrastrutture che molto probabilmente non saranno pronte entro il 2025, data prevista per il phase out.

Al tavolo governativo svolto alcuni giorni fa e presieduto dalla sottosegretaria al Ministero dello sviluppo economico Alessandra Todde, si è parlato del nuovo fondo da 20 milioni di euro l’anno a supporto della riconversione dal carbone e dell’eventuale extra capacità disponibile dal Just transition fund (Jtf), relativo all’ormai noto piano europeo di investimenti Green deal.

Tali risorse risulteranno sì fondamentali per mitigare gli impatti sociali e occupazionali che la riconversione potrà avere sulla comunità sarda. Ma tutto dipenderà da come effettivamente tali risorse verranno investite: potrebbero essere molto utili per avviare quel cambio di prospettiva al quale si accennava prima, mentre risulterebbero buttate al vento se continuassimo sulla strada fin qui perseguita.

Perché si fa finta di non vedere che la Sardegna potrebbe invece diventare il prototipo di un nuovo modello di sviluppo economico e industriale del Paese? La Sardegna potrebbe essere il primo banco di prova per un Paese, come l’Italia, che punta a liberarsi dalle fonti fossili.

Il ricorso alle risorse energetiche rinnovabili, ampiamente presenti nell’isola, e l’attuazione di politiche mirate all’efficienza energetica sono le azioni da perseguire con serietà; accompagnate da una forte azione culturale di informazione e coinvolgimento del territorio al fine di smetterla con alcune battaglie demagogiche in atto a tutela del paesaggio, laddove da decenni si sono devastate aree incredibilmente belle in nome del solo profitto.

La Sardegna può diventare la prima regione carbon free, aumentando al contempo il benessere dei propri abitanti. Qualcuno ci sta provando: i Comuni di Benetutti e Berchidda, in provincia di Sassari, unici nell’isola ad avere la titolarità della rete locale di distribuzione elettrica, intendono trasformarsi da acquirenti a erogatori di servizi energetici, mettendo in pratica quel concetto di comunità energetica che il Pniec appena approvato dovrebbe sostenere concretamente e non solo a parole.

Basta volerlo: si tratta di scelte politiche che al momento nessuno ha il coraggio, o la capacità, di perseguire.

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