Luca, Paolo, Mia: no. Così non si fa. Sadismo puro il vostro. Invidia, forse. Mancanza di tatto, come minimo. La domenica del pallone poteva non essere più la stessa e non lo è stata. Nemmeno la giornata palindroma eccezionale vi ha intenerito. Cattivi. Avevate Totò Schillaci in studio a Quelli che il calcio e non l’avete fatto parlare. Una (mezza) frase, un rigo appena. Totò che visse due volte e rubava le gomme poteva fare la storia. Schillaci, il re di Italia ’90, “pemme è una grande soddisfazione essere caponiere peccato che immiei sei gol non sono serviti”, il giocoliere della sintassi e del pronome volante, lo scambiatore assassino di consonanti, lo storpiatore di sillabe, avrebbe potuto surclassare tutti. L’understatement di Adriano Panatta, le peripezie odontoiatriche di Emanuele Dotto, il tacco fetish e la bat felpa di Mia Ceran, i gilet a doppiopetto di Luca Bizzarri. E invece niente, immobile, seduto, fermo “come un semaforo”.
Prima una breve introduzione dal pub quando ancora la Juventus colleziona rigori come ciliegie contro la Fiorentina e a lui, Totonno, nemmeno gli funziona l’audio. Poi sul divano in studio con il copione che sovrasta ogni possibile anelito di fantasia orale del nostro. I conduttori gli mostrano le immagini d’epoca quando arrivò in ritardo a Coverciano nel 1990 e lui addusse a vaghi “motivi di traffico in autostrada”. Tre preziose, rare, impercettibili parole di senso incompiuto. Ecco allora l’appello strappalacrime altrui per aumentare i suoi follower sulla sua pagina Instagram dove l’ultima foto è con Robert De Niro e la finta Georgina/Liliana Fiorelli prova ad insegnargli, per la modica cifra di 12mila euro, come si fanno le Stories.
E lui: “A me i soldi piace usarmeli, così coe favole è molto facile”. “Coe favole”, capite? Totonno avrebbe ancora un potenziale impressionante da geroglifico egizio, da iscrizione sumera. Proprio come ai bei tempi de “Il nuovo allenatore di cui è impostato la squadra”. Per non dire della sua considerazione da nichilismo niciano che potrebbe diventare l’attacco di una lunga e articolata lectio magistralis sul ruolo del denaro nella vita di un bomber. Invece Totò si eclissa. Muto. Silente. Giacca blu e jeans attillati con taglio sul ginocchio da 55enne hipster. Tatuaggi sul dorso delle mani alla Fabrizio Corona, altri piccoli disegnini sulle falangi che ricordano i racconti di Nicolai Lilin. E poi quello straordinario toupée nero becco di corvo al cui cospetto Cesare Ragazzi impallidirebbe e il magnifico Sandro Mayer rimarrà per sempre un dilettante.
La Lazio macina gol contro la Spal. Il Verona inchioda il Milan a San Siro. Aldo, Giovanni e Giacomo irrompono in studio e Aldo perfino lo abbraccia, bacia, tira fuori la maglia azzurra 19 per farsela autografare ma Totò divertito non dice una parola. Rimane lì fulminato con la pupilla baluginante, come quando fuori dal Comunale di Torino l’indimenticabile Franco Costa lo rincorreva col microfono e lui si donava, sorgivo, frasi scapigliate, coniugazioni improvvisate, lingua scotennata. Non serve a nulla un capolavoro come Pandemia canaglia cantata live da Luca e Paolo. Nemmeno una parola rubata dopo la parodia di Uomini e donne con Francesco Paolantoni protagonista. Totò continua ad osservare in silenzio il circo perfetto di Quelli che il calcio. Ancora un occhio strabuzzato qui per la palla di sterco dello scarabeo cantante mascherato. Ancora uno sguardo spaventato là nel vuoto sul monitor dei match in corso. Ma quando tutto sembra perduto, quando la Treccani sta per chiudere l’account social della sua enciclopedia e la Crusca sta sollevando il ponte levatoio dell’accademia, Schillaci intravede di sbieco Immobile segnare e colpisce di testa come in mezzo ai due difensori austriaci ad Italia 90: “I gol bello ne ho fatte”.