“I ricchi devono pagare le tasse. Le leggi sono molto chiare e loro usano ogni modo possibile per sfuggire e portare il denaro nei paradisi fiscali. Dobbiamo rafforzare i controlli”. Sono state categoriche le parole del segretario generale dell’Ocse, José Ángel Gurría, durante l’ultimo summit di Davos. I dati mostrano che la ricchezza offshore individuale nel mondo ammonta a 7.500 miliardi di euro, di cui 1.500 appartenenti a cittadini europei, famiglie e dinastie. Scambi di informazioni, investigazioni collaborative e triangolazioni di dati puntano a mettere un argine a gestioni di patrimoni sempre più sofisticate. Ma tra paradisi fiscali nella stessa Unione Europea, il doppio standard degli Stati Uniti e la crescita imponente di patrimoni offshore da parte della Cina e dei Paesi non Ocse, la ricchezza fantasma potrebbe continuare a prosperare anche nei prossimi anni.

Germania prima in Ue per ricchezza offshore
I dati della Commissione europea, diffusi lo scorso ottobre e riferiti al 2016, indicano che la ricchezza complessiva detenuta offshore da cittadini europei è di 1.500 miliardi di euro, circa il 10% del Pil dell’Unione a 28. Il Paese con la maggiore ricchezza offshore è la Germania: 331 miliardi di euro. Seguono Francia, con 277 miliardi, Regno Unito, con 218 miliardi e Italia con 142 miliardi di euro. In termini percentuali per il nostro Paese questa somma vale l’8,1% del Pil, rispetto a una media dell’Unione a 28 dell’8,7 per cento. Cipro, con il 50% della ricchezza offshore rispetto al Pil, domina il ranking percentuale e precede Malta, con il 48%, e la Grecia, con il 34 per cento. Secondo le autorità il 75% di questa ricchezza offshore sfugge ai controlli del fisco e comprende l’evasione internazionale sui patrimoni, sui dividendi elargiti dalle società e sul reddito personale non dichiarato. Complessivamente sono almeno 1.100 i miliardi di euro fantasma per i Paesi Ue, vale a dire oltre 46 miliardi di euro di entrate mancanti nelle casse degli Stati membri. Miliardi che potrebbero essere anche dietro l’angolo. La commissione speciale Tax3 del Parlamento europeo ha infatti sottolineato lo scorso anno che manca la volontà politica di combattere l’evasione/elusione fiscale e la criminalità finanziaria, che sette Paesi (Belgio, Cipro, Ungheria, Irlanda, Lussemburgo, Malta e Paesi Bassi) presentano le caratteristiche di un paradiso fiscale per le persone fisiche e per le multinazionali e facilitano una pianificazione fiscale aggressiva e che i visti e passaporti d’oro dovrebbero essere progressivamente eliminati.

Le azioni dell’Ocse per lo scambio di informazioni
Nel 2014 l’Ocse ha adottato il cosiddetto Common Reporting Standard, un sistema che permette di condividere automaticamente, tra i Paesi aderenti, dati e informazioni riguardanti conti esteri e attività finanziarie. Gli scambi automatici sono partiti a settembre 2017, con un gruppo di 49 Paesi. A Davos, durante la presentazione dello studio intitolato “Tax unfairness in the European Union” del Polish Economic Institute, Gurría ha rivendicato i risultati di questa iniziativa: “Abbiamo avviato prima lo scambio di informazioni su richiesta, ora c’è lo scambio automatico, che coinvolge 100 giurisdizioni nel mondo. Vuol dire che se viene aperto un conto ai Caraibi, si informa immediatamente il ministero delle Finanze del Paese di residenza della persona che ha aperto il conto. Sono già avvenuti scambi di informazioni relativi a 50 milioni di conti correnti bancari, che valgono complessivamente 5mila miliardi di euro, vale a dire un terzo dell’economia Usa. Sono stati recuperati per ora 102 miliardi di euro di tasse, e 25.000 tax ruling sono stati resi pubblici. Inoltre, i depositi nel Centri finanziari internazionali si sono ridotti di un terzo, non c’è più un posto per nascondersi”. Secondo il “The 2019 Aeoi (Automatic exchange of information) Implementation Report” dell’Ocse, nel 2019 gli scambi di informazioni sono stati 6.100, in crescita del 36% rispetto al 2018. E nell’anno in corso partiranno i primi scambi anche per Albania, Ecuador, Kazakhstan, Maldive, Nigeria, Oman e Perù.

I primi successi delle investigazioni collaborative
Scambi di informazioni e collaborazione tra le amministrazioni iniziano a dare qualche risultato. Pochi giorni fa le autorità di Regno Unito, Stati Uniti, Canada, Australia e Paesi Bassi hanno annunciato il successo di un’operazione investigativa che ha messo fine a una sospetta evasione fiscale offshore, nell’ambito delle attività del Joint Chiefs of Global Tax Enforcement, o J5, costituito nel 2018. L’investigazione è partita dai Paesi Bassi, ha coinvolto un istituto finanziario in Centro America, e secondo alcuni ufficiali dovrebbe essere collegata ai Panama Papers. “Questa è la prima azione effettuata su scala globale dai J5, la prima di molte”, ha detto Don Fort, capo delle investigazioni all’Internal Revenue Service, l’agenzia delle entrate Usa. “Lavorando con i Paesi J5, che hanno tutti lo stesso obiettivo, siamo in grado di allargare la nostra azione, velocizzare le indagini e avere un impatto esponenzialmente più grande sul sistema fiscale globale. Agli evasori fiscali negli Usa e fuori bisognerebbe far sapere che i giorni delle inadempienze sono finiti”.

Il doppio standard degli Usa, che hanno un quarto della ricchezza offshore mondiale
Non sarà tuttavia così facile. Gli Stati Uniti non aderiscono al Common Reporting Standard e operano attraverso il Facta, il Foreign Account Tax Compliance Act, introdotto nel 2010 per frenare il massiccio esodo di capitali che aveva colpito gli Usa. Questo sistema permette la raccolta delle informazioni sui cittadini americani all’estero, ma non condivide reciprocamente i dati. Gli Usa, al secondo posto nel mondo dietro la Svizzera e davanti alle Cayman nel Financial Secrecy Index del Tax Justice Network, detengono già un quarto della ricchezza offshore complessiva mondiale, e questa quota potrebbe aumentare. Delaware, Nevada, Wyoming e South Dakota negli ultimi anni hanno assorbito patrimoni prima detenuti nei paradisi fiscali tradizionali. Il South Dakota, che ha una popolazione inferiore al milione di persone, non prevede tasse su redditi, eredità e dividendi. E ha visto incrementare vertiginosamente nell’ultimo decennio la ricchezza dei suoi trust, cioè fiduciarie che raccolgono attività finanziarie o immobili, da 57 miliardi a una stima per il 2020 di 355 miliardi di dollari.

La Cina e le tendenze globali
In questo scenario, a trainare la crescita della ricchezza offshore nelle ultime due decadi sono stati in particolare i Paesi non aderenti all’Ocse, passati dai 1.100 miliardi di dollari del 2001 ai 4.600 miliardi del 2016. Assoluti protagonisti i cittadini cinesi, che nel 2001 contavano “appena” 90 miliardi offshore, contro i 1.900 miliardi di dollari del 2016, ultimo anno della rilevazione. Dati che però potrebbero essere stati influenzati dall’impatto che avuto dalla nascita del mercato offshore del renminbi a Hong Kong. L’edizione 2019 della Global Wealth Managers Survey di Global Data ha rivelato che il 50,2% degli addetti ai lavori si aspetta una domanda di investimenti offshore crescente, mentre solo il 9,1% vede una contrazione del mercato. Secondo gli analisti, la quota di investitori offshore è cresciuta dal 2014 in avanti dall’11,2% al 16,9 per cento.

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