I tre attivisti di No Name Kitchen si trovavano in una ex area industriale e stavano aiutando i migranti accampati lì intorno. Tra loro anche un bolognese: "Ci hanno lanciato addosso carburante e rotto i telefoni. Avevano la bandiera cetnica. Nessuno ha ascoltato la nostra testimonianza. E alla fine hanno condannato noi"
Aggrediti con benzina, petardi e manganelli. E poi, al termine di una giornata trascorsa alla stazione di polizia e di un processo senza avvocati, condannati a 20 giorni di carcere e a lasciare la Serbia entro una settimana. La denuncia arriva dai volontari di No Name Kitchen, piccola ong che si occupa di aiutare i migranti sulla rotta balcanica. La pena è stata convertita in una multa di circa 200 euro, ma a causa del foglio di via gli attivisti ora rischiano di non poter più lavorare nel Paese.
“Speriamo non sia un metodo sistematico per disfarsi e mandare via ong scomode“. Uno dei protagonisti della vicenda si chiama Adalberto Parenti, ha 37 anni ed è bolognese. È in Serbia da ottobre e sabato 1 febbraio si trova insieme ad altre due volontarie tedesche a Sid, città poco distante dal confine con la Croazia, nella fabbrica abbandonata di Grafosrem. Un edificio fatiscente, dove trovano riparo i migranti che tentano la via per l’Europa, e dove l’associazione ogni giorno porta loro cibo, acqua, vestiti e beni di prima necessità. “Alle 9 del mattino si presenta un gruppo di operai per disboscare i cespugli intorno alla fabbrica. Uno di loro ha la divisa militare, indossa il basco nero e agita il manganello”. Sul tetto issano la bandiera serba e quella cetnica, con simboli che fanno riferimento ai movimenti ultranazionalisti.
Era già successo nelle settimane precedenti: gli operai avevano radunato e dato fuoco alle tende delle persone che dormivano lì intorno. E avevano tagliato le gomme del furgone dell’associazione. Questa volta però vanno oltre. “Versano benzina su una tenda, bagnando anche la volontaria che si trova dentro. E danno fuoco al telo. Se la prendono poi con un’altra ragazza che sta filmando con il cellulare: le lanciano un petardo sulla schiena e le distruggono il telefono con un bastone”. A quel punto i volontari, spaventati, si allontanano dall’edificio e si fermano nel parcheggio ad aspettare i colleghi e la polizia.
Una volta arrivati sul posto gli agenti li fanno salire sul furgone e li portano alla stazione di polizia. A questo punto la vicenda e i ruoli si ribaltano completamente. E da vittime i tre si ritrovano accusati e condannati. “Ci lasciano 6 ore senza informazioni. Poi, nel pomeriggio, ci portano davanti a un giudice, assicurandoci che non è necessario un avvocato. Noi andiamo, convinti che avrebbero processato i nostri aggressori. Invece non raccolgono nemmeno la nostra testimonianza. Ascoltano solo la versione degli operai. Il giudice ci condanna a 20 giorni di carcere per violenza. Dopo un processo farsa, ci fanno tornare alla stazione di polizia dove ci consegnano un foglio di via che ci obbliga a lasciare il Paese entro 7 giorni. Danno il foglio anche a una nostra collega non condannata”. Il caso ora è in mano a un avvocato serbo suggerito dal Belgrad Centre for human rights, che ha già fatto ricorso. Il timore dell’organizzazione però si concentra sull’ordine di espulsione. “Si tratta di un provvedimento di polizia, contro cui è più difficile opporsi. E che lascia poco tempo. E abbiamo paura che sia solo un modo per eliminare facilmente e velocemente l’attività di una ong”